La terapia del tempo

Chi non ce la fa, aspetti

L’anno nuovo è appena cominciato. La pandemia imperversa, ostinata, e non si può uscire liberamente di casa. Come se non bastasse, il freddo e la pioggia costante che da diverse settimane si riversano dappertutto, lasciano davvero poco spazio ad ogni arbitrio.
In una simile circostanza è inevitabile per me fermarmi a raccogliere i pensieri. Quante speranze abbiamo riposto in questo 2021, quanti desideri trattenuti da un 2020 in cui non sono mancate delusioni, frustrazioni e, per i meno fortunati, perdite importanti?

Ho vissuto e sentito raccontare molte storie difficili lo scorso anno. Qualcuno ha perso i genitori, i propri amici, i compagni. La distanza ha posto fine ad alcuni amori che non ce l’hanno fatta e persino alcune amicizie sono state messe a dura prova dalla separazione nello spazio. Per non parlare del danno economico e alla carriera che ha colpito diversi settori e che ha messo in ginocchio tante famiglie.

Ciò che forse più mi tormenta però, è l’impatto emotivo che ha creato sulle persone, con le conseguenti domande che si sono fatte largo nella mia mente. Ho visto scivolare nella depressione tante persone, anche molto vicine a me. Le ho viste trasformarsi in qualcosa che non avevo mai potuto conoscere prima e ho visto alcuni dei miei cari cadere vittime di una sofferenza invisibile ma concreta, talvolta spiazzante al punto da immobilizzare, da rendere inerti, quasi passivi davanti a quello che sta capitando.

Ricordo perfettamente l’ultima notte prima del primo lockdown. Conte aveva appena annunciato la chiusura di tutte le attività e l’impossibilità di uscire per quelle che allora credevamo fossero solo due settimane, diventate presto un mese, poi un altro, poi liberi, poi zona gialla, rossa, arancione, a seconda dei casi. Ho visto proteste, rivolte, negazioni, gente arrabbiata con il Governo, con i medici, con i vaccini. Nulla che non abbiate visto anche voi.
Quella notte feci una passeggiata con una mia cara amica e decidemmo di salutare la Roma notturna. Sapevo che l’avremmo vista per l’ultima volta come la conoscevamo, chissà per quanto tempo. Mentre bevevamo una birra sulla deserta e stranamente buia Via dei Fori Imperiali, mi venne spontaneo un pensiero, una consapevolezza sul fatto che quello che stava per succedere sarebbe passato letteralmente alla storia. Allora ancora non comprendevo del tutto l’entità di ciò che stava per capitare, ma ne percepivo comunque l’importanza.

I mesi hanno cominciato a scorrere lentamente, e sia la mia vita che la vita di tutti gli altri ha iniziato a cambiare, non sempre in meglio. Anzi, direi quasi mai. Durante una chiacchierata con mia nonna, tempo fa, giusto per il piacere di lamentarmi, ho avuto l’infelice idea di utilizzare la frase che segue: “Così chiusa in casa in casa mi sembra di stare in guerra”. La sua risposta mi ha colpita, ammetto di non aver mai visto le cose da quel punto di vista: “Guerra? Io l’ho vissuta la guerra e questo è peggio. Almeno in guerra potevi abbracciare le persone”.

Mia nonna aveva indubbiamente ragione. La mia generazione non ha mai vissuto la guerra, non in quel modo, comunque. Nessuno nel passato recente ci ha lasciato in eredità degli strumenti adatti a fronteggiare una cosa del genere. Considerando questo come un fatto appurato, non posso comunque che riconoscere dei meriti a ognuno di noi. La vita che conoscevamo prima non esiste più. Confesso che non tutto mi dispiace, in questo cambiamento. Ma questa è un’altra storia.

Ad ogni modo la sua frase ha scatenato in me un meccanismo di pensieri complessi e talvolta forse contraddittori. Mille domande si sono fatte spazio alla ricerca di qualche risposta.

Perché il Covid-19 è peggio della guerra? Perché pur avendo una casa in cui stare e affetti da cui rifugiarsi, molte persone stanno cadendo in depressione? La nostra generazione non ha mai vissuto una situazione del genere prima di oggi, ma come l’avrebbero affrontata i nostri nonni e i nostri antenati?

È qui che ha iniziato a farsi strada la mia tesi.
In cosa possiamo dire che la pandemia sia peggiore della guerra? Indubbiamente in quanto è causata da un nemico invisibile. Quando abbiamo un problema, siamo abituati a scaricare la colpa su fattori esterni e tangibili che possiamo focalizzare facilmente. In guerra il nemico di solito ha un nome e un volto. Che sia una persona, una bandiera o che assuma altra forma visibile poco importa, purché esista. Persino nelle peggiori ipotesi fantastiche, gli scenari apocalittici hanno sempre dei nemici visibili come zombie, alieni o mostri con un corpo e un aspetto chiaramente identificabile.

Nel caso di questa pandemia, invece, il nostro nemico oltre a essere invisibile ha le sembianze degli abbracci dei nostri cari, dei baci dei nostri amori, delle risate dei nostri amici. Questo è un aspetto che in guerra i nostri nonni non hanno vissuto, e che non siamo allenati ad affrontare. Ed è frustrante, disorientante, deprimente, ingiusto. E l’ironia di tutto questo è che non possiamo arrabbiarci con un nemico che può essere toccato. Da questo mistero sfuggente nascono in gran parte la rabbia contro il Governo, contro la sanità e il negazionismo che preferisce pensare al complotto, piuttosto che accettare una comune e temporanea impotenza nei confronti di un fenomeno naturale che può essere contrastato solo con la pazienza e con il tempo.
Ed è qui che ho pensato ad un’altra differenza fondamentale tra la nostra generazione e quella dei nostri nonni.

C’è stato un tempo in cui l’attesa era una componente fondamentale in quasi tutte le cose. C’è stato un tempo senza internet, senza Netflix, senza Amazon, in cui gli obiettivi e i desideri richiedevano l’attesa come principale caratteristica comune. Oggi, spendendo anche poco, ci basta un click per avere quello che desideriamo.

Se vogliamo fare un acquisto, possiamo andare online, senza uscire di casa e girare per negozi, senza fare la fila alla cassa, senza l’obbligo di incontrare altre persone. I pacchi che ordiniamo arrivano in pochi giorni, in alcuni casi persino in poche ore.
Per intrattenerci, se ci va di guardare una serie TV, abbiamo l’imbarazzo della scelta tra tutte le piattaforme disponibili. Non solo, ma siamo liberi di fare le famose maratone in pochi giorni, perché le puntate escono tutte insieme e sta solo a noi dilazionarle. Abbiamo perso memoria del concetto di attesa, quello grazie al quale una volta si parlava con i propri amici di un episodio per una settimana intera, in attesa del successivo. Il tempo scatenava la fantasia delle persone che tiravano fuori tantissime teorie sui successivi eventi. È proprio così che la ingarbugliatissima “Lost”, serie TV degli anni 2000, ha avuto tutto quel successo. Oggi invece, esistono persone che scelgono di guardare tutte le stagioni di una serie in una volta, e solamente se tutte disponibili. Non siamo più in grado di tollerare di attendere nemmeno per i finali di stagione. Sebbene in maniera leggermente diversa, ci comportiamo allo stesso modo anche anche per la musica su Spotify, per i libri sugli e-book, e ancora di più per le chat istantanee. I nostri desideri vengono esauditi qui, ora e subito da questi strumenti che per molti versi sono una benedizione che ha indubbiamente migliorato le nostre vite, facendoci però pagare un caro prezzo.

Le chat, per esempio.
Anche i nostri nonni incontravano persone, ma non lo facevano come lo facciamo noi. Nascevano amicizie e amori, ma tutto questo avveniva senza la necessità di comunicare compulsivamente per tutto il giorno. Per vedersi, per parlarsi, era necessaria l’attesa. Si attribuiva un valore diverso al desiderio di guardarsi negli occhi. Si era costretti a parlarsi solo a voce, tramite il telefono fisso, per comunicare a distanza e l’unico metodo per scriversi, erano le lettere. Oggi siamo abituati ai messaggi di buongiorno, buonasera e buonanotte, possiamo passare intere giornate e intere notti a chattare se lo desideriamo. Quando ci manca qualcuno possiamo scrivergli subito, possiamo videochiamare e guardare negli occhi le persone anche a distanza, possiamo usare i messaggi vocali e mille altre cose. Il tutto avviene subito, nel preciso istante in cui desideriamo farlo.

Questo tutto e subito, ci ha indeboliti e resi vulnerabili, incapaci di attendere, incapaci di affrontare in silenzio, incapaci di ascoltarci dentro. È così che la pandemia ci ha feriti maggiormente, obbligandoci a un’attesa completamente nuova per noi, costringendoci a fare le file per i negozi, persino al supermercato, togliendoci l’immediatezza a cui siamo ormai abituati. Quando finisce un amore, quando perdiamo qualcuno, quando ci ammaliamo, la prima cosa che ci sentiamo dire è che il tempo guarisce tutto. Io non sono in grado di dire se questo sia del tutto vero, ma indubbiamente il tempo, anche quando non guarisce proprio del tutto, ci cura, se sappiamo renderlo nostro amico.

Scrivo questo con il desiderio di incoraggiare chiunque legga a guardare il valore del tempo in un modo diverso, con una prospettiva più ampia. Per questa ragione, il mio augurio per quest’anno nuovo, è che tutti noi diventiamo capaci di liberarci un po’ da questa fretta di ottenere subito qualsiasi cosa, per imparare di nuovo l’aspetto positivo dell’attesa.

Ma più di tutto spero – io per prima – di riuscire a smettere di inventarmi un nemico immaginario per gli obiettivi che non ho realizzato. Non è colpa del 2020 se le cose sono andate male. Per certi versi è indubbiamente colpa di questo virus se non ho potuto fare tante cose, ma se mi sono fermata dentro, nella mia mente, è solo colpa mia. Voglio anzi correggermi. Il termine colpa è impreciso e rischia di essere frainteso. Il concetto di colpa troppe volte viene accompagnato da un senso di vergogna che ci porta a percepirci in errore, sbagliati, che non ci permette di amarci a pieno. Pertanto, sostituisco il termine colpa con il termine responsabilità. Non dobbiamo sentirci in colpa per le cose che ci capitano, ma abbiamo la libertà di riconoscerne talvolta la responsabilità. Assumerci la responsabilità di qualcosa comporta la possibilità di cambiarla, quando lo desideriamo. La colpa ci rende piccoli: la responsabilità ci rende liberi.

È mia responsabilità se resto indietro, è mia responsabilità se prendo o perdo troppo peso, se rallento con il lavoro che desidero e smetto di cercare. È mia responsabilità se smetto di controllare tutto ciò che è ancora in mio potere gestire. È chiaro che esistano condizioni e situazioni che non possiamo sempre controllare in maniera diretta, ma credo fermamente che sia nostra responsabilità scegliere il modo in cui decidiamo di viverle.

Ho deciso che non me la prenderò con il 2021 come ho fatto con il 2020, per tutte le cose che non ho realizzato. È naturale che esistano concreti problemi economici e non, che la pandemia ha portato nel nostro Paese e alle nostre famiglie. Tuttavia, il cambiamento che parte dalla mente e dal cuore, quello che viene da un profondo che forse il nostro Uki ben conosce, in fondo dipende solo da noi stessi.

Gilda Fabiano

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