La nostra magnifica specchiata solitudine

Racconto breve su una solitudine che basta a sé stessa per specchiarsi in un'evocante immobilità

Passeggiare il lungomare per la coda, il sole caldo perpendicolare abbaia al vento, terso l’orizzonte steso contro gli alberi verdi. Andare, andare, bucato la gomma della moto per le strade di campagna, le bisce sull’asfalto sgretolato, i binari del pendolino che ha smesso di sferrare.
Abito ancora qua in Rue des Lauriers-roses, tre mutande appese a un filo, quattro loti caduti in giardino, quattro crani aperti, tre limoni appesi al ramo, la porticina di verde legno salato, pietre e spunti di pulsante erba, aria salmastra.
Traslocatomi qui all’inizio dell’autunno, la campagna intorno ancora matura, l’albero di loto colmo di frutti, l’erba morbida come un divano.
Un salotto cucina al primo piano, al secondo la camera da letto e il cesso, nessun riscaldamento, nessun televisore.
Un tappeto di nodi grossi all’entrata, un altro appeso alla parete mostrava una scena dei festeggiamenti dei pescatori per il loro ritorno, un tavolino bianco basso accanto alla poltrona grigio topo.
Sopra, la mia ultima opera, traduzione del trattato di Caterina Lorenzetti da Rigagnano, monaca del ‘400. Valore stimato dell’opera: zero.
Qualche vociare intorno a sera, dopo il grande incendio nel cielo al tramonto… Mr. Krutmoin guarda il telegiornale delle otto, la signora Bermann ascolta Schumann, due cani a poca distanza accennano qualche latrato tirato.
Il bar cadente, anziani al bancone e ai tavolini, due bimbi giocano correndo attorno al tronco di un pino, la Gazzetta dello Sport lasciata sulla sedia di plastica scolorita.
Conobbi Alain lungo la spiaggia, poco dopo l’alba, io camminavo , lui rincasava.
Buonasera… Buongiorno. Alain re del bar, Alain affaracci lungo la provinciale. Alain occhi neri, braccia peste, uscite d’emergenza attivate, all’indietro e avanti marsch. Tania, Gaspare, il Dottor Lamorte, il grande Architetto.
Siamo questi qua in paese, siamo morti per lo più, senza più niente da dire che non sia stato, tutto già detto dalla nostra faccia che non laviamo più.
Il vento soffia forte in questi giorni e spinge la sabbia lungo i viali, gli ossi di seppia, le bottiglie sul bagnasciuga, schiarite dal tempo.
Non siamo più che una sagoma dietro una facciata decadente di un palazzo mai finito, marciamo lentamente nella salsedine, l’intonaco, la ruggine, le alghe.
È tornato alle nove il marinaio ubriaco, lasciandosi dietro per le vie del paese un tanfo rancido di muffa, peti e alghe.
Ha dormito nella cesta delle reti da pesca, tra una triglia secca e una vongola, e gli uccelli da lassù in circolo, fosse una carogna almeno, i gabbiani lo spolperebbero, fosse un topo , una lisca, i gatti lo spezzetterebbero. Nulla di tutto questo, continua a trascinare il suo fantasma per le vie dopo sinuose sbronze di gin.
Siamo un rutto alle sei del mattino, una goccia di sangue schizzata dallo stomaco ulcerico del piedipiatti in pensione un attimo prima di accasciarsi, la puzza di bruciato di una pallottola l’attimo dopo aver mirato una quaglia, finiti già prima di partire e ora in questo limbo di magnifica specchiata spettrale solitudine.
Le donne in nero tra gli usci, i gatti neri sui davanzali tra i gerani e le foglie di basilico.
Abbiamo aspettato anche noi, sul davanzale della finestra che da sul mare, il marito di Tania che non torna dalla pesca, sdraiandoci come il gatto, tra i gerani e il basilico, l’odore di caffè invadeva la cucina fin sul vortice del letto.
Le voci della guerra imminente, della guerra perduta, della crisi economica, le strilla del tempo impazzito, la siccità, l’inquinamento, la plastica, importa nulla qua dei vostri pruriti, del vostro sociale abbiamo nulla noi a che vedere con queste lamentele, abbiam già dato abbastanza, siamo molto stanchi che accettiamo l’inverno, il gelo, la fame, la moria delle capre.
Siamo due sedie di paglia sfilacciata per i culi secchi dei nonni la notte davanti al mare, sotto i lampioni rossi, il fumo dell’umido.
Importa, importa quasi più nulla di niente, ieri notte i cattivi ragazzi han fatto saltare un’altra vetrina, importa, importa, niente quasi più neanche al proprietario del negozio.
Cosa volete soldi ancora, che non è rimasto niente. Cosa volete qui, sangue, asfalto, piscio, nulla di niente da consegnarvi amici, patria, governo.
Abbiam già dato quel poco che rimaneva, siam sfiniti non vedete i nostri ondeggi, siamo stanchi, lasciateci in pace per le vie assolate i pomeriggi caldi d’agosto, lasciateci dormire tra il rintocco vicino di una campana e un campari in piazza desolazione.
Le notti estive, lasciateci rimescolare tra le vie del paese e i lampioni e i passeggi silenziosi e il jukebox al radioattivo e le carte e la radiocronaca di un mondiale per caso, la difesa cede, il portiere è morto, noi non pariamo più Capitano.
Nella penombra delle sacre camere specchiate, più in alto, si aspetta la Pasqua e si fa all’amore, le tende scosse dal vento, le persiane socchiuse, nessuno per strada il profumo dei campi esplosi di gemme.
Camminando sotto gli archi e le volte , le cantine fresche coi pozzi, il vino, l’olio, colmi, lenti.
Nella penombra delle sacre camere specchiate, io e lei siamo soli tra le rovine gelide, la notte fredda bussa dalla veranda.
Ci siamo specchiati abbastanza negli occhi della civetta, una mano pelosa per il paese attaccato un orologio e un bambino.
Intersezioni di visioni differenti e solitarie, riflessi in occhi preistorici.
Rimaniamo polvere, tra le piastrelle di ceramica, tra gli interstizi, pezzi di ferro arrugginiti sotto il sole tra gli scogli.
Nella nostra magnifica specchiata solitudine il mare è terso, il cielo spazzato dal vento, la visibilità ottimale. Non importa di niente, non importa di cosa importa o di come conviene, abbiamo già avuto abbastanza, non pretendiamo nessuna goccia in più.
Durante il funerale, nelle chiese estranee, odori di donna acre sulle giacche, tra le gonne, due mosconi ronzano innamorati nell’aria calda, il prete non smette di parlare.
Nelle sale da ballo odore acre di dopobarba, bitter campari e limonata, l’atmosfera si accomoda, l’eco della fine di una guerra da lontano, le birre, la camicia buona, l’aria calda, il sudore alle tempie, i pantaloni, le milonghe.
Non ci importa di niente, scopiamo quel poco, quel che serve, mangiamo, ci sbrodoliamo, nulla più che arrivare stanchi alla notte, nella nostra specchiata solitudine.

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Giancarlo Pitaro

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