Jesus And Mary Chain @Ferrara Sotto Le Stelle – 07/2015

L'atteso ritorno dei Jesus and Mary Chain

Nel mentre mi apprestavo a scrivere questo report, mi sono resa conto del tempo che è passato dall’ultimo concerto a cui ho assistito. Potrei mentire e dire che stavo facendo qualcosa di terribilmente importante e impegnativo, tipo trovare l’algoritmo per risolvere la situazione greca. E voi potreste mentire dicendo che ve ne frega qualcosa di quello che stavo facendo.
La verità è che voi, probabilmente, eravate davvero occupati in faccende molto più serie, mentre io stavo cercando di venire a capo dell’affascinante mondo WordPress per continuare a non dire niente, ma tramite un blog.
Fatto questo doveroso preambolo per superare l’impasse da “e mo’ che scrivo?”, torniamo ai concerti e al fatto che sì, sono stata musicalmente un po’ disattenta nell’ultimo periodo, ma quando mi muovo lo faccio alla grande.
Cominciando dai My Bloody Valentine e passando per gli Slowdive, si è concluso il 19 luglio il mio cammino di Santiago attraverso lo shoegaze quando i Jesus And Mary Chain si sono fermati a “Ferrara Sotto Le Stelle“, una manifestazione sonora che riunisce ogni anno nomi prestigiosi e giovani artisti di grande talento.
Se mai un giorno avrò degli eredi al trono, potrò raccontare di quando i “tardoni” delle distorsioni si riunirono dopo vent’anni, ricordandomi che, appunto, il tempo passa, siamo nati per morire e io ancora metto le gonne nere.

Arriviamo nella provincia emiliana domenica scorsa in un orario, per noi, furbissimo: le sei del pomeriggio. Destino vuole che non solo questa sia considerata l’estate più calda dai tempi del Klondike, ma che Ferrara sia una città costruita sul vapore. Ferrara non è umida, è fatta per il 90% da acqua e il restante 10% da tagliatelle. Il tempo di lasciare la valigia in albergo che ho cominciato a camminare in una valle di sudore, da cui non sono più uscita perché vivo a Roma e non a Göteborg.
Sbrigate le pratiche in hotel, decidiamo di fare un giro per il centro a scattare un paio di foto da giapponesi e approfittare per un aperitivo in attesa dell’inizio del concerto. In base al principio calabrese che una teglia di pasta al forno con la ‘nduja, introdotta in un corpo umano, porta a un equilibrio termico lo stesso, ci sediamo ai tavoli di un locale proprio fuori dalle mura del Castello Estense e ordiniamo birra e piadina. Sono ancora indecisa se sono state le quindici birre o la piada farcita di piada, fatto sta che a due ore dal live volevo piangere di disperazione dal caldo e dalla ritenzione idrica.

 

Verso le 20.45 facciamo il nostro ingresso all’interno della Piazza del Castello, dove stava iniziando l’esibizione di The Sleeping Tree, un cantautore friulano dall’aria riservata che, con l’accompagnamento della sola chitarra acustica, ha portato un pubblico non ancora foltissimo all’esibizione più attesa.
Quasi un’ora più tardi appare sul palco il manifesto di “Psychocandy” ed è subito magia. Per chi non lo sapesse, si tratta dell’album di esordio dei Jesus and Mary Chain, suonato dal vivo dopo trent’anni dall’uscita e diciassette anni dopo la separazione del gruppo. Per chi non lo sapesse, sono cinquanta flessioni a mezzogiorno sul cemento.

Partiamo dalle note dolenti: il volume non era adatto al tipo di suoni ma più a preservare la città come patrimonio dell’umanità; hanno sbagliato due o tre attacchi dando conferma che gli anni lontani pesano sulla coesione interna. In più, ma questa è stata solo una mia veloce impressione come già successo per altri gruppi tornati insieme dopo tanto tempo, mi è sembrato che non sapessero bene cosa stessero facendo lì.
Queste sono considerazioni che vanno fatte per dovere di cronaca, ma al tempo stesso bisogna fermarsi all’emozione, alle vibrazioni che arrivano da una band che non ha mai fatto dei virtuosismi un cavallo di battaglia. I fratelli Reid, per loro stessa ammissione, non hanno mai saputo suonare granché ed è una cosa che i fan dovrebbero sapere.
Non si va a un concerto del gruppo scozzese per riconoscere un assolo, si va perché siamo stati ragazzini e abbiamo usato “April Skies” come titolo per qualche fotografia scattata, abbiamo camminato fintamente annoiati sulle note di “Happy When It Rains” e tenuto la mano ascoltando “Just Like Honey“.
E ora quei ragazzini sono ancora una volta tali, anche se nel frattempo i capelli sono ingrigiti, c’è qualche chilo di troppo e qualcuno ha avuto a sua volta un altro ragazzino a cui spiegare perché oggi si assiste a un pezzo di storia.
Non ci importa della tecnica, di William Reid imbolsito o della stempiatura di Jim, balliamo e sudiamo in egual misura. Il repertorio attinge, nella prima parte, da album come “Darklands” (“April Skies“, “Nine Million Rainy Days“) e “Automatic” (“Blues From A Gun“). Una breve pausa e “Just Like Honey” ci sorprende come rivedere il grande amore a distanza di anni. Da lì viene eseguito l’intero “Psychocandy” ed è tutto, non un bis, non qualche altra chicca. Questo avevano promesso e questo ci hanno regalato, in una notte umida come i vestiti appallottolati dentro la borsa della piscina e appiccicosa. Come il miele.

 

Agnese Iannone

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