Italia 1934 – Nasce la Grande Italia (Speciale Mondiali -Part.3)

Si scrive Mondiale, si legge Italia 1934: la cavalcata azzurra che porterà la Nazionale per la prima volta sul tetto del mondo

Il gioco più amato dal ‘Bel Paese’

 

Negli anni ’30 il calcio visse in Italia un momento di grande popolarità. La stagione 1929/1930 fu la la prima in cui il campionato di calcio si disputò con una formula a girone unico: a fregiarsi del titolo di campione d’Italia alla fine fu l’Ambrosiana Inter, squadra di Milano trascinata dalle prodezze di Giuseppe Meazza. Milanese purosangue nato a Porta Vittoria nel 1910, Meazza era un calciatore straordinario: tecnico, veloce, dalla visione di gioco stupefacente e dall’innato fiuto del gol. Il calcio fatto persona. Ma Meazza, il balilla più famoso d’Italia, negli anni avvenire si ritrovò infatti a fare i conti con uno squadrone formidabile, composto da campioni altrettanto leggendari. Stiamo parlando della Juventus di Combi, Rosetta, Caligaris, Monti, Orsi e Ferrari, che dalla stagione 1930/31 monopolizzò il campionato italiano vincendolo 5 volte consecutivamente. La presidenza della Figc all’epoca era occupata da Leandro Arpinati, podestà di Bologna e uomo di fiducia di Benito Mussolini. Arpinati ebbe la brillante idea di nominare un unico commissario tecnico per tutte le nazionali, e la scelta ricadde sul torinese Vittorio Pozzo.

 

Un ‘Pozzo’ di sapere

 

Nonostante i grandi cronisti del secolo abbiano cercato di sminuirne conoscenze e qualità, si può tranquillamente affermare che Vittorio Pozzo sia stato il miglior tecnico che la Nazionale di calcio Italiana abbia mai avuto. Al di là di un carattere chiuso e impenetrabile, Pozzo era per i suoi tempi un tecnico all’avanguardia, dettagliatamente informato sul calcio di ogni nazione, attento studioso della psicologia degli uomini da mandare in campo e capace di osservare il gioco a 360°. Pozzo era certamente un uomo fortemente attaccato alla patria e fanatico della disciplina, la sua fermezza nel rigore atletico non concedeva eccezioni a nessuno, ma i successi dell’Italia di quegli anni nacquero dalle sue intuizioni tecniche, dall’analisi minuziosa di tutti gli elementi del gioco e dalla sua capacità di trasmettere ai giocatori determinazione voglia di vincere. Va detto però che a dare una grossa mano a Pozzo ci fu l’autentica razzia di talenti provenienti dal Sudamerica compiuta dalla nazionale. Sfruttando le discendenze italiche dei tanti nipoti o pronipoti di emigrati in America, il calcio azzurro si trovò tra le mani un tesoro di fuoriclasse che fecero fare un importante salto di qualità alla nostra rappresentativa. Con giocatori come Monti, Guaita e Orsi, Pozzo poté disporre di un potenziale tecnico di primo livello da assemblare i talenti di casa nostra che iniziarono a sbocciare alla fine degli anni 20.

 

Si scrive Mondiale, si legge Italia 1934

 

Fu proprio il presidente Figc Leandro Arpinati a muovere i primi importanti passi nella promozione  della candidatura italiana come paese ospitante della seconda coppa del mondo, in programma nel 1934. L’8 ottobre 1932 a Zurigo, la Fifa accolse le richieste del governo italiano ed affidò all’Italia l’organizzazione del mondiale. Sin dalla sua presa di potere Mussolini aveva sempre promosso lo sport, in particolare il calcio, come importante strumento propagandistico e nazionalistico. In un paese ancora disunito da forti campanilismi, il Duce individuò nel pallone il mezzo giusto per fortificare l’unità nazionale. La macchina organizzativa, con alla guida l’avvocato Giovanni Mauro e l’ingegnere Ottorino Barassi, patì a tutto gas nonostante le dimissioni di Arpinati dalla presidenza della Figc per ‘incomprensioni’ con il segretario del partito Achille Starace. La nuova presidenza Figc venne affidata al generale Giorgio Vaccaro, mentre il regime non badò a spese nel potenziamento delle infrastrutture e nella costruzione di imponenti impianti sportivi, all’epoca secondi solo a quelli inglesi. Otto le città scelte per ospitare gli incontri mondiali: Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Roma, Torino e Trieste.  Contrariamente a quanto successe in Uruguay, l’adesione alla competizione da parte delle varie federazioni fu massiccia. Per la prima si rese quindi necessario un turno di qualificazione (al quale dovette partecipare anche l’Italia) che avrebbe sancito le 16 partecipanti alla fase finale. Poche le assenze illustri: se l’Inghilterra, così come tutta l’area britannica ad eccezione dell’Irlanda, continuava a snobbare la manifestazione per mere questioni di principio, l’Uruguay campione del mondo in carica rinunciò a difendere il titolo per ripicca, memore del forfeit di massa da parte delle federazioni europee che quattro anni prima avevano disertato la prima edizione dei mondiali. La bizzarra formula della qualificazione, che prevedeva 6 gironi da 3 squadre, un triplo turno eliminatorio per l’America del Nord e 5 scontri diretti, regalò poche sorprese. Assieme all’Italia, qualificata grazie al 4-0 con cui “spezzammo le reni alla Grecia” (almeno su un campo di calcio), si qualificarono Argentina, Austria, Belgio, Brasile, Cecoslovacchia, Francia, Germania, Paesi Bassi, Romania, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Ungheria e la prima africana di sempre: l’Egitto. L’unica big a rimanere fuori fu la Jugoslavia, semifinalista ad Uruguay 1930, eliminata nel girone da svizzeri e romeni.

 

La cavalcata azzurra

 

Il  27 maggio del 1934, anno in cui Luigi Pirandello si aggiudica il Premio Nobel per la Letteratura, Germania e Polonia firmano il patto di non aggressione, e Katharine Hepburn riceve il primo di 4 premi Oscar come miglior attrice protagonista per l’interpretazione in “Morning Glory“, in Italia si accesero le luci della seconda coppa del Mondo di calcio. Nella lista dei 22 uomini con cui Pozzo decise di andarsi a giocare il Mondiale, spiccava un folto blocco juventino, composto da 8 bianconeri, Meazza, con cui il ruvido tecnico piemontese dovette faticare non poco per placarne bizze e capricci da primattore, Schiavio, Guaita e Ferraris IV, un mix di giocatori giovani ed esperti che nella testa dell’allenatore avrebbe dovuto comporre un telaio vincente. Il primo ostacolo sul cammino degli azzurri fu rappresentato dagli Stati Uniti agli ottavi di finali. La partita, disputata a Roma davanti a 25.000 spettatori, si rivelò per la Nazionale poco più che un allenamento: un diluvio di gol (7-1) col quale rispedimmo verso l’Oceano i rivali a stelle e strisce. Ben più ostico il secondo turno, in programma a Firenze il 31 maggio, contro la Spagna del mitico portiere Ricardo Zamora.

La leggenda narrava che l’estremo difensore catalano, in patria numero uno del Real Madrid, fosse in grado di ipnotizzare gli avversari con il sguardo glaciale. Il confronto con gli iberici iniziò nel peggiore dei modi: alla mezzora Regueiro gelò il comunale di Firenze superando Combi con un perfetto stacco di testa. A fine primo tempo Schavio, ostacolando furbescamente Zamora, permise a Ferrari di mettere in rete il punto dell’1-1. L’assedio azzurro nella ripresa non dette i frutti sperati: la prestazione di Zamora versione superman, impedì all’Italia di trovare la via della rete anche dopo i tempi supplementari. Non essendo stati ancora inventati i calci di rigore, l’1-1 obbligava ad una ripetizione del match 24 ore dopo. Quel giorno a sorpresa la Spagna non schierò Zamora e il gol di Meazza segnato al 12′ del primo tempo, bastò agli azzurri per volare in semifinale. Attorno all’assenza di Zamora si creò un piccolo giallo. Secondo le storie con la ‘esse’ minuscola, quelle che non finiscono sui giornali, fu direttamente la Figc a chiedere alla Federazione Spagnola di non schierare il portiere catalano su espressa volontà del Duce. Ufficialmente Zamora diede forfait a causa di una pessima condizione fisica, dovuta dagli estenuanti 120′ giocati il giorno prima, e peggiorata dal poco riposo nel dopo partita la notte prima del replay-match, quando un nutrito gruppo di tifosi fiorentini piazzato davanti l’albergo delle furie rosse ne disturbò il sonno con trombe e tamburi.

Dopo Roma e Firenze il viaggio lungo la penisola della squadra di Pozzo toccò Milano, sede della sfida contro l’Austria. Il Wunderteam rappresentava la nostra bestia nera. La classe dei giocatori austriaci, che avevano nel centravanti Sindelar il loro punto di forza, ci aveva riservato una dolorosa batosta proprio prima dei Mondiali. Soprannominato dai tifosi austriaci “Carta velina” per il suo fisico apparentemente esile, Sindelar era un vero uomo d’area di rigore, sempre puntale all’appuntamento con il gol. A spostare gli equilibri di un match che sulla carta ci vedeva sfavoriti, furono le condizioni atmosferiche. Le pesanti piogge abbattutesi sul capoluogo lombardo nei giorni precedenti avevano infatti reso il terreno di gioco un vero pantano, elemento che certamente non  aiutò la tecnica dei danubiani, nettamente inferiori agli azzurri sul piano atletico. Bastò infatti il gol di Guaita, siglato al 21′ della prima frazione, per stroncare le speranze austriache e staccare il biglietto per la finale.

 

Gli altri incontri

 

Se la gara dell’Italia fu letteralmente a senso unico, ben più emozionanti e combattute furono le altre sfide degli ottavi. L’Austria ebbe la meglio dei francesi (3-2) solo dopo i tempi supplementari, mentre la Svezia riuscì a superare l’Argentina, con lo stesso risultato, segnando il gol vittoria a 11’ dalla fine. A far compagnia sul traghetto di ritorno alla squadra finalista 4 anni prima in Uruguay, il Brasile del “Diamante NegroLeonidas, battuto per 3-1 dalla Spagna trascinata dalla doppietta di Langara. A queste si aggiunsero Ungheria, Svizzera e Germania. Ai quarti di finali il Wundertem si aggiudicò anche il ‘derby del Danubio’ contro l’Ungheria vincendo per 2-1, la Germania con lo stesso risultato piegò le resistenze della Svezia, infine la Cecoslovacchia sconfisse la Svizzera per 3-2 dopo un match spettacolare. L’altra semifinale mise dunque di fronte Germania e Cecoslovacchia: gli uomini di Otto Nerz, nonostante una condizione fisica ottimale, non riuscirono ad arginare la manovra dei cechi e soprattutto a limitare uno scatenato Nejedly, autore di una tripletta e futuro capocannoniere del torneo. Inutile, nel computo del 3-1 finale, il gol tedesco firmato da Noack. Nella finalina per il 3° e 4° posto, andata in scena a Napoli il 7 giugno, la Germania superò l’Austria per 3-2 assicurandosi la medaglia di bronzo.

 

La finale

 

Il 10 giugno 1934, lo Stadio del Partito Nazionale Fascista di Roma fu teatro della finale di Coppa del Mondo. A darsi battaglia sotto gli occhi di Benito Mussolini e Jules Rimet: Italia e Cecoslovacchia, due diverse scuole di calcio a confronto pronte a contendersi la statuetta d’oro e il titolo di Campioni del Mondo. Ancora una volta la formazione azzurra partiva battuta dal pronostico: la stampa internazionale vedeva infatti nella corazzata boema un avversario tecnicamente superiore, in grado quindi di sconfiggere anche la volitiva e battagliera squadra di Pozzo. La prima frazione terminò a reti inviolate: i giocatori  italiani, stranamente innervositi e impacciati, riuscirono comunque a mettere paura a Planika in più di un’occasione. Le cose si complicarono ulteriormente al 71′, quando un gran sinistro di Puc ammutolì lo stadio capitolino portando in vantaggio la Cecoslovacchia. Il gol paradossalmente scosse l’indolenza azzurra, e dopo neanche 10′ Orsi ristabilì la parità con una bomba dai ventri metri. La gara proseguì ai tempi supplementari, ma bastarono una manciata di minuti agli azzurri per archiviare definitivamente la pratica ceca. Al 5′ Orsi mise in mezzo per Guaita che da ottima posizione infilò Planika con freddezza. Per i cechi fu una mazzata: lo squadrone boemo infatti non riuscì più costruire le manovre ubriacanti che nella prima frazione avevano messo in ginocchio gli azzurri. Il ko fu perentorio, l’italia era Campione del Mondo.

 

Orgoglio Italico

 

Il successo degli azzurri scatenò alcune sgradevoli polemiche da parte della stampa, sopratutto quella francese. I giornali transalpini parlarono di un’insopportabile atmosfera che aveva condizionato le decisioni degli arbitri e di fantomatiche pressioni sulle varie ambasciate atte a piegare le resistenze degli avversari azzurri. Se da un lato questa edizione confermò la necessità di tutelare la rappresentativa di casa almeno fino ad un certo punto (anche per motivi economici), da un lato agli azzurri non fu concesso nessun favoritismo di sorteggio. Spagna, Austria e Cecoslovacchia rappresentavano allora il meglio del calcio europeo, e la squadra di Pozzo dovette faticare e non poco per averne ragione. Ad ogni modo la conquista del trofeo fu un motivo d’orgoglio in più per Mussolini e il fascismo. I campioni azzurri incarnavano l’ideale del vero italiano, mens sana in corpore sano. Essi rappresentavano il simbolo dell’Italia vincente e lo sport un ottimo mezzo di propaganda che il regime sfrutterà in pieno anche negli anni avvenire. Il mondo stava rapidamente cambiando: 20 giorni dopo la finale, “la notte dei lunghi coltelli” permise a Hitler di sbarazzarsi degli ultimi oppositori; poco tempo dopo Mussolini incontrò il Fuhrer a Venezia. C’era da decidere da che parte stare, poiché si stavano completando i tasselli che nel volgere di 5 anni avrebbero portato alla seconda guerra mondiale.

Carlo Alberto Pazienza

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SPECIALE MONDIALI:

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> Uruguay 1930 (Part. 2)
> Francia 1938 (Part. 4)
> Brasile 1950 (Part. 5)

Svizzera 1954 (Part. 6)
Svezia 1958 (Part. 7)
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