Intervista ad Annibale Gagliani: autore dell’opera “Romanzo Caporale”

L'autore presenta la storia di un immigrato che dal Kenya arriva in Italia dopo che i suoi sogni di poter aiutare il suo popolo vengono inesorabilmente infranti. Una denuncia verso una pratica aberrante, quella del caporalato, e insieme a questa verso l’azione quasi inerme delle Istituzioni sociali e politiche

Annibale Gagliani è un giornalista pubblicista, scrittore, saggista membro della Canadian Association For Italian Studies e poeta. Ha intrapreso con il Co.Re.Com, la Regione Puglia e l’Unisalento un progetto di ricerca sulle minoranze linguistiche in Puglia e collaborato con innumerevoli testate, tra le quali «Lecce Cronaca», «Il Nuovo Quotidiano di Puglia» e «L’Intellettuale Dissidente» e con blog e riviste di critica letteraria. Pubblica il saggio “Impegno e disincanto in Pasolini, De André, Gaber e R. Gaetano” (IQdB Edizioni, 2018) e l’e-book “Ground zero – Post-liquidità generazionali” (IQdB Edizioni, 2018). Nel 2019 arriva il suo terzo lavoro editoriale, “Romanzo caporale”, sempre edito da IQdB Edizioni. È inoltre autore di articoli scientifici che verranno pubblicati nel 2020 come “La trattativa Mattei-Rockefeller” per la Fondazione Enrico Mattei, in collaborazione con la rivista «Il Mediterraneo

Di cosa parla la tua ultima opera Romanzo Caporale?

“Romanzo Caporale” è un viaggio introspettivo che parte dalla fine di un immigrato nel caos italiano. Un giovane leader politico del Kenya è costretto a scappare dal proprio Paese a causa della corruzione e perciò percorre la tratta disumana del Mediterraneo per poter progettare un futuro di pace per la propria famiglia. Arrivato in Italia, si stabilisce nel Salento, tentando di essere incluso nel tessuto sociale, alternando lavori umili e familiarizzando con persone umili. Ma sullo Stivale l’intolleranza è tragicomica: l’immigrato è oggetto di inspiegabile razzismo. Il fallimento del suo progetto di salvezza lo porterà a essere risucchiato nei meccanismi infami del caporalato, diventando addirittura bersaglio di gruppi neonazisti che ne determineranno la costrizione del suicidio per sfuggire alla macchina del fango generata da essi. In particolare, a Otranto, il protagonista ritrova la terra rossa del suo Kenya sulla Cava di Bauxite, luogo in cui deciderà di togliersi la vita riunendosi alla madre che non ha mai conosciuto. Il libro vuole distruggere gli stereotipi attorno alla questione migranti e allo sfruttamento dell’Africa, facendo luce sulla corruzione dell’uomo nei nostri giorni e sui caporali che indossano maschere da salvatori della patria.

Quali sono i motivi che ti hanno spinto a scrivere il tuo romanzo?

Principalmente lo smarrimento nel vedere come stereotipi e fake news si staglino all’interno della coscienza civile, pilotando l’opinione su problematiche urgenti della contemporaneità che avrebbero bisogno di essere trattate con un approccio scientifico e intellettuale. L’odierna società, ipertecnologica, che può tutto nel nome del benessere, sta regredendo in ottica di diritti civili, imboccando strade tremebonde: razzismo, omofobia, estremismi. In seconda battuta, mi ha spinto la rabbia alimentata dalle innumerevoli storie conosciute attraversi i miei studenti immigrati nei corsi d’italiano per stranieri, oltre, e nel libro ne faccio riferimento in premessa, a un incidente devastante accaduto sulle strade delle campagne del foggiano nell’agosto del 2018, dove persero la vita numerosi lavoratori-migranti schiavi del caporalato e rimasti per diverso tempo senza nome né patria.

Il protagonista di “Romanzo Caporale” attraversa letteralmente l’inferno nel corso della sua storia. Ma nonostante tutto il dolore e le brutalità narrate c’è una luce in questa vicenda: il lavoro dei missionari e dei volontari che cercano di rendere meno traumatica l’esistenza degli immigrati giunti nel nostro Paese. Quali sono state le tue esperienze in merito? Hai parlato con alcuni di loro per scrivere la storia raccontata nel tuo romanzo?

Ho conosciuto un prete missionario, don Donato Panna, uno dei personaggi del romanzo, mio conterraneo, che nel 1989 ha creato la cooperazione “Amici di Marsabit” che da trent’anni offre volontariato nei villaggi del Kenya. I diari di don Donato, consegnatimi dalla famiglia, e i racconti dei suoi volontari sono stati la prima pietra miliare. La seconda è stata l’incontro con innumerevoli ragazzi migranti conosciuti nel progetto sulle minoranze linguistiche in Puglia, nei corsi d’italiano per stranieri da me tenuti ad Arci Lecce e per le strade delle città salentine.

 

Oltre all’immenso valore della solidarietà, quali sono le altre tematiche trattate nell’opera?

La cieca smania di potere che porta un uomo a sfruttare ignobilmente altri uomini o addirittura Stati interi. La ricchezza incommensurabile delle donne, portatrici d’amore e fonte di miglioramento per l’uomo. Il meccanismo d’inclusione sociale in Italia e la mancata difesa del lavoro che da un quarantennio ha imboccato la via di un declino distruttivo per la società civile, avvantaggiando poche élites.

 

Cosa significa per te scrivere e raccontare storie?

È un modo per fregare la morte, garantendo un’estensione del mio vissuto quando non ci sarò più. È un modo per respirare in mezzo al frastuono. È il mio piccolo contributo alla società civile.

Sei uno scrittore, giornalista, saggista e poeta. Cosa desidera ancora Annibale Gagliani per il suo futuro professionale?

Contribuire al miglioramento della mia terra con la forza e il contagio delle idee.

Sei al lavoro su un nuovo progetto letterario? Puoi darci qualche anticipazione?

È già pronta una raccolta poetica dedicata a persone che ho incontrato negli ultimi anni e che attraversano inferni invisibili. Ho in mente un nuovo romanzo e un saggio sulla scia del primo. Chi vivrà vedrà…

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