Incubo schizo in G# N. 163

Dallo sterminio delle tenebre che lo avvolgono, il sogno del sognato si animò, e lo uccise

Il pullman Boston-New York arranca lento lungo l’interstatale che attraversa i boschi del Connecticut. Le foglie dei rami filtrano la luce già tenue del tardo pomeriggio. I sedili in finto pelle consumati puzzano di sudore e sporcizia di milioni di miglia. L’ambiente è saturo di marcio. Sono seduto accanto al finestrino, guardo scorrere un altro stanco giorno americano mentre il grassone spiaggiato alla mia sinistra, destatosi da un sonno di piombo, ha abbrancato tre scatole di cartone dalla borsa che tiene poggiata ai piedi del sedile e, ora, si sta ingozzando di cheeseburger impuzzolendo l’aria del sapore di cetrioli sotto aceto e altre amenità scaturenti dal suo trangugiare e respirare senza pace. Ha i polsi grossi e la barba ispida bionda e gli occhi da beone, gonfi di sonno, e di fame a quanto pare.
Il pullman rallenta inserendosi in una svolta, poi frena, fortunatamente prima che una crisi di nervi mi mandasse in delirio. Così scendo alla stazione di servizio. L’autista ci avvisa che la sosta sarebbe durata solo venti minuti. Non mi vedrete mai più sul quella discarica, bastardi. Svuoto il pappagallo, pago un fusto da litro di succo d’arancia e lo tracanno tutto. Mi accendo una sigaretta e mi incammino lungo l’interstatale nell’aria ferma del tramonto. La strada prosegue lungo un paesaggio provinciale, da un lato l’oceano distante, dall’altro la campagna, a volte un quadrivio di case basse forma un nucleo abitato sperduto in quell’angolo di mondo. Chissà com’è vivere l’intera esistenza dentro quel nucleo sparpagliato, all’insaputa di tutti e di tutto. Ovviamente proseguire a piedi senza meta, poco prima che cali la notte, non è stata una grande idea, ma lassù sarei impazzito e avrei sgozzato quel ciccione con una lattina di coca cola e il sangue dalla carotide sarebbe schizzato sui finestrini e sugli altri passeggeri provocando non poco baccano.
E certo non è stata neanche una grande idea salire sull’aereo da quel buco di paese per cercare lavoro – chissà cosa mi ero immaginato –  e , giusto per parlare in tutta confidenza – la notte sta arrivando e la strada è lunga – non avrei neanche dovuto spappolare la testa a quel pappone bulgaro. Insomma chi di noi non è in gioco e chi, qualche volta, impara a giocare solo per salvarsi la pelle. Non voglio dire che sia stato vittima degli eventi, che qualche decisione, anche inconsapevolmente, ma dettata da una inconscia volontà, a volte anche violenta, non l’abbia mai presa. Ma le cose vanno, in un senso o nell’altro, e, chiamalo come vuoi, il caos sceglie il biglietto estratto della lotteria.
Tra alti e bassi, economici, sentimentali, morali, avevo trovato un po’ di pace nei mesi precedenti scaricando casse di aragoste e altri crostacei nel mercato comunale del pescato di Boston. Un posto di lavoro gelido e puzzolente. Sniffavo tabacco e dormivo tutto il giorno per poi congelarmi il culo dalla sera alla mattina. La paga era uno schifo, ma ci campavo e nessuno aveva nulla da ridire sul mio conto. Per un periodo frequentai anche una ragazza di alto borgo, poi per questioni finanziarie fui costretto a troncare quella relazione dispendiosa. La linea della vita scorreva regolare fino a quando il caos non la mandò in aritmia. Avevo un amico al mercato, il suo nome era Bob e grazie a lui avevo trovato quella fatica. Bob era un traffichino, tutti lo conoscevano lì dentro. Di tanto in tanto spicciava qualche affare illecito per campare la famiglia. Roba tranquilla, nulla di che allarmarsi. Capitava, alle volte, che qualche peschereccio scaricasse, oltre al pescato e al tanfo dei pescatori, alcune casse di coca… Oh, ma forse ora sto divagando col pensare, tutto questo camminare, e dove sarò arrivato? Il sole è andato giù da un pezzo e nell’aria resta solo un vago chiarore spettrale che si riflette sull’asfalto.
Sorpasso l’ennesimo incrocio dell’interstatale con stradine dirette a nessun luogo. Ma è tardi, bisogna fare qualcosa. Scorgo in lontananza una casa, proprio sul ciglio della strada di campagna che squarcia perpendicolare l’interstate. Mi ripasso la frottola da raccontare al proprietario di casa lungo il mezzo miglio che ci separa. La strada di campagna ora si fa di ciottoli e buche.
Scorgo in lontananza un trattore, un recinto con dentro probabilmente dei polli, il prato curato, le assi di legno bianco scolorite della casa. Indosso la mia faccia più gentile e affidabile e suono il campanello: «Buonasera, sono Mike Bloomfield, il mio autobus è partito senza di me lasciandomi in mezzo alla strada. Ho provato a camminare nella stessa direzione, ma non ho trovato neanche un ostello in cui passare la notte e scorgendo la sua casa in lontananza mi sono chiesto se vi abitasse qualcuno di così gentile da potermi ospitare. Io ripartirò di mattino presto prima dello spuntare del sole. Anche un divano o una branda mi farebbero comodo per riprendere il viaggio».
Dalla porta esterna intelaiata da una zanzariera verde spuntava l’espressione quasi impaurita di una signora dai cinquantanni messi male. Lei scostò il filtro della porta a zanzariera e apparve una faccia incuriosita, occhi neri, troppo neri in contrasto con il biancume della pelle e il rosso della tinta dei capelli, fini come fili di ragnatela, che le coprivano la fronte e le squadravano il viso in una sorta di frangetta.
All’espressione preoccupata e oscura della padrona, chiesi alla mia faccia uno sforzo di pietà e alla mia voce la flebilità di una teenager: «Signora mi creda non ha nulla da temere, sono un ragazzo a modo e me ne andrò col primo chiarore mattutino, devo raggiungere New York, devo prendere servizio in un ristorante irlandese». Ecco, stava già percorrendo all’indietro il viale ghiaioso al primo rifiuto della signora, quando quasi in prossimità di rimettermi sulla strada la donna chiamò: «Hey! Aspetta. Ripensandoci sembri uno a modo, non mi hai pugnalata quando ti ho detto di no, perciò, si potrai passare la notte qua».
Benedissi il santo Signore dio del mondo per quel lieto fine. La casa era arredata con mobili stile finto impero degli anni ’80, la sala da pranzo puritana, in bianco panna ingiallita, ci vide cenare, seduti a un capo e all’altro del tavolo, una zuppa calda di farro e patate. La signora trascorreva le sue giornate a montare la guardia alla casa, ricamare e tenere bassa l’erba del giardino, da quando il marito era morto due anni addietro. Dopo cena, stese un lenzuolo sul divano della sala pranzo, mi diede una coperta spessa di lana e mi augurò buona notte. In pace con il creato, guardai un po’ di televisione per prendere sonno, nonostante non mi sentissi le gambe dalla stanchezza… – quel maledetto bulgaro, non avrei mai dovuto accettare quanto propostomi da Bobby al mercato del pesce, ma lui mi aveva dato una mano e quando mi chiese di potergli ricambiare il favore accettai contento di sostituirlo in quel traffichino per sdebitarmi. Bobby era a letto da cinque giorni nel pieno di una broncopolmonite. Così seguì le sue indicazioni alla lettera. Giunsi quella notte all’orario stabilito nei pressi della banchina, il freddo era atroce e le mie ossa vibravano sotto il cappotto. Alle tre e quaranta in punto, dal peschereccio un segnale luminoso mi diede il via. Guidai il sollevatore di casse sul ponte del peschereccio, accanto un tizio della mala, amico nostro, dall’altro un gruppo di costaricani con le teste imbacuccate dentro cappelli di lana infeltriti e puzzolenti. Il tizio che mi seguiva si scambiò un po’ di preliminari con il ciccione costaricano che indolenzito e sofferente assentiva a tutte le sue richieste. Il ciccione scoperchiò alcune casse scelte a caso dal mio sodale il quale estrasse da ognuna un tonnetto, un branzino, poi, poggiati su una cassa, infilò le lunghe dita nella bocca del pesce e vi cavò fuori differenti imballi sigillati nella carta stagnola. Assaggiò, strofinandosi le gengive, il contenuto di ogni recipiente, poi soddisfatto diede una pacca sulla spalla al ciccione e disse loro di caricare tutto sul mio muletto – …si esatto, è come quando pensavo a piedi per strada camminando, si perde molto tempo privo di senso, poi il caos smazza, alza e serve altre carte e ci sta un altro giro da cominciare. E il più delle volte non siamo mai veloci a cominciare, mentre rimaniamo sempre lenti a svoltare. Mi addormentai pensando a quanti pensieri passano per la mente di ogni uomo, ogni azione, ogni secondo, ogni uomo. Sognai la faccia del bulgaro sfracellata sul cemento.
Mi svegliai, era notte fonda, rividi gli occhi aperti del bulgaro e così vuoti, senza vita, pensai alla sua anima trapassare per i sette regni fino alle porte dell’infinito, proprio dietro il manto bucato di stelle. E pensai che fosse egualmente il più grosso bastardo dell’universo. Sentì il russare ritmato della signora dal piano di sopra, sorrisi e mi alzai per versarmi un bicchiere d’acqua dal lavandino della cucina. Senza accendere le luci, mi muovevo per la casa nella penombra della luna che filtrava dalle finestre. Provai a rimettermi a dormire, ma senza esito positivo. Mi rigiravo in continuazione riflettendo sul bastardo del bulgaro che aveva scoperto la mia contromossa.
Come dicevo, ci sono carte che il caos serve una volta e basta e bisogna esser dei bravi ragazzi a svoltare in modo veloce, anziché finire lenti incartati senza via d’uscita. Io non mi ci vedevo a lavorare in nero, di notte, al gelo, a scaricare casse per il resto dei miei pochi giorni, così presi la palla al balzo, agguantai tutta la coca svuotando i pesci freschi freschi dell’oceano, la misi insieme sigillandola nel cellophane per impedire al puzzo di pesce di fuoriuscire, la posai nel mio zaino e mi avviai di filato alla stazione. Quel bastardo di un bulgaro, non so ancora come ebbe la soffiata, probabilmente fu a causa dell’infame di Bobby – chissà quante botte gli avranno reso – mi pizzicò mentre percorrevo di fretta la strada che dal mio tugurio porta alla stazione dei treni. Non avevo scampo e lo scagnozzo del bulgaro, che mi aveva accostato, mi spinse a salire sulla Mercedes nera. Il bulgaro e il suo scagnozzo parevano tranquilli, intenzionati a uccidermi e a riprendere la roba, senza farla molto pulp. Anche io ero tranquillo, seduto davanti con il mio zaino tra i piedi, le costole sudate in agitazione, la lama del coltello nella tasca interna del giubbino di pelle mi graffiava l’ombelico.
«E così tu provato a fare magia. Sei mago tu eh?», mi stuzzicava il bulgaro, ridacchiando, mentre guidava attraverso la vecchia zona industriale. La fondina della pistola sotto la giacca pareva un ernia. Seduto dietro il suo scagnozzo si copriva con le mani la faccia, non so bene per quale motivo. «Tu devi stare tranquillo, Vasil, lui non parla più tra poco». Ma quello insisteva a coprirsi.
«E cosi io sarei un mago, ma tu, uomo, sei un guidatore di formula uno a quanto pare», provai a compiacerlo rompendo il ghiaccio con voce umile. Il bulgaro, gran bastardo, scacciò dal sorriso lo scintillio del suo incisivo d’oro, poi spinse il pedale sull’acceleratore. L’espressione di compiacimento del bulgaro, ancora la vedo nitida, mentre lancia la Mercedes verso il mio sepolcro. Povero coglione.
Il tutto avvenne nello spazio di un servizio meteorologico radio che trasmetteva a basso volume. L’auto lanciata oltre i 200 all’ora, agguantai rapido la leva del freno a mano e la sollevai con tutta la forza del braccio, e scaricavo casse al porto da circa sei mesi. Si ancora mi tira il muscolo dallo strappo. L’auto sbandò, mentre il bulgaro tentava sbigottito di tenere il volante, io afferrai rapido il coltello con la mancina e lo piazzai dritto in gola allo scagnozzo che dal colpo era volato, peso morto, quasi nel mezzo tra me e il bulgaro. Lo pugnalai rapido due volte e dalla gola sgorgò come da un pozzo di petrolio sangue rosso corallo. Mentre si dimenava e la sua anima volava, aprii la portiera e corsi via con il mio zaino. Continuo a pensarci, ma in questo modo non prenderò mai sonno e, invece, ho bisogno di riposare e distendere i nervi. Quel gran bastardo di un bulgaro… corsi a perdifiato lungo la zona industriale, mi intrufolai nel primo capannone dismesso, il bulgaro riavutosi dallo schianto era rosso in viso e sudava e ringhiava come un orso affamato e, sfoderata la sua pistola, mi inseguì come un mastino. Il gioco era semplice, appena quel babbeo entrò nel capannone lo freddai in pieno viso con un colpo secco di una spranga di ferro che il caos pose sulla mia strada. Lui esplose un colpo di pistola in aria prima di cadere al suolo. Lo finii spaccandogli il cranio, in piena scarica di nervi, mentre si agitava al suolo, sempre più lento. Non emise neanche un gemito, quel bastardo, restò in un lago di sangue, una montagna inerme schiacciata al suolo. E pensai: «Sono un mago e tu sei il coniglietto morto che estraggo dal cilindro», ma non avevo la carica cinematografica adatta, né, oltretutto, aria nei polmoni a sufficienza, per affermare la frase ad effetto, sopraffatto dal cuore che batteva all’impazzata e dai polmoni in gola. L’immagine del bulgaro disteso nella pozza del suo sangue mi tranquillizzò e mi addormentai nell’oblio assoluto.

***

Quando mi ebbi dal sonno, spalancai gli occhi, ma tutt’intorno era buio e l’aria asfissiante. Qualcuno mi aveva bendato e legato gambe e braccia, come un salame. Le braccia attaccate strette al torace mi bloccavano il respiro. In bocca un pezzo di stoffa mi sbarrava la bocca. L’aria chiusa di garage o di cantina mi fece piombare nel caos. Allo stomaco una fitta atroce e un pizzicare al braccio. Vittima degli eventi, ero stato con molta probabilità drogato e sbattuto in quel buco. Non tardai ad agitarmi, senza senso in quanto niente avrei potuto fare per slegarmi. Il tempo scorreva eterno, una-due-tre ore, avevo perso qualsiasi contezza. Grosse gocce di sudore salato mi colavano dalle tempie sul collo, dagli zigomi sulle labbra. Lo strofinaccio ficcato in bocca mi rendeva impossibile qualsiasi, quanto vana, preghiera d’aiuto consentendomi solo un flebile lamento, il più triste mantra “Om”. Poi una porta si aprì, dei passi pesanti giù per una scala, due rampe, uno-due-dieci gradini scricchiolanti di legno. Sarebbe stato troppo semplice, pensai, trovare una dolce signora, farmi una dormita, ripartire in tranquillità, giungere a New York e rivendere la roba a Mel, che stava due passi dietro la stazione degli autobus di Times Square, e godermi i quattrini in Florida.
«Bentornato ragazzo. Sebbene tua madre ti abbia partorito cieco, il Signore ti ha guidato fin qui nella sua estrema compassione per la tua anima perduta, e tu hai seguito la sua volontà perché la tua anima vuole riscattarsi dall’oscurità in cui sei nato. Avevo indovinato dal tuo fiato che il Signore chiedeva redenzione per te, anima in pena». Perfetto, pensai, la pazza religiosa del Connecticut mi mancava, così banale da diventare inaspettata.
Accese, credo, alcuni ceri e, nonostante l’oscurità della benda stretta sugli occhi, il chiarore del fuoco schiariva alcune ombre in controluce. Sembrò la sua sagoma quella che, genuflessa, iniziò a salmodiare a voce flebile e capo chino qualche preghiera per la salvezza universale. Rimasi in silenzio, senza muovermi, in quel tormento ritmato. La sua voce roca, quasi sussurrata, rimbombava nella mia testa, avrei voluto muovermi, spaccare quei lacci e strangolarla lentamente guardandola negli occhi. Ma rimasi calmo, considerando che qualsiasi cosa facessi sarebbe stata controproduttiva. Avevo visto molti film horror e, alla fine, chi si lagna di più viene fatto secco per prima. Buon dio cosa avevo fatto di male. Pensai all’oratorio, a quando quel prete vecchio fece il provolone con mia cugina al catechismo, a quando lo aspettai, ombra nella notte, uscir dalla chiesa e gli piantai un cacciavite nel fianco. Era questa, forse, la pena da espiare? O quando spaccai il naso a Gilbert? Per quello che taccheggiai, rubai, violentai, divorai, distrussi? Rapide sfrecciarono come vagoni immagini e ricordi in cui probabilmente si annidava il peccato. Ecco, ora sto per impazzire – pensai – pensando me stesso supplicante.
«E per oggi, credo, possa andare bene», cigolò con voce gracchiante la sagoma della signora. La udii alzarsi, girare per la stanza, aprire e maneggiare in qualche cassetto. Il tocco caldo della sua mano sul mio avambraccio, un misto di terrore e eccitazione, mi destò dai miei pensieri. Mi afferrò, strinse un laccio fino a vedere bene la vena, infilò un ago, mi agitai quando l’ago perforò senza avviso la pelle. Lei mise una mano sulla fronte, «Per oggi può bastare. Buon riposo, ragazzo». Rilassai il braccio, sciolsi i muscoli, regolai la respirazione. Rimasi in ascolto nel buio, mentre sentivo qualcosa di caldo salire su dal braccio fino alla testa. Rimasi in ascolto. Nel buio, sentivo la pressione del sangue aumentare lungo l’arteria del collo. Il cuore incessante battere e rimbombare in gola.
All’improvviso dei passi scendere le scale, tre figure, ombre più nere del buio ovattato della stanza, «Il mondo per la salvezza dell’anima» borbottavano quasi all’unisono. Le loro mani mi alzarono il busto e mi posero in posizione seduto. Una presa dura e incorporea. Qualcuno mi levò la benda dagli occhi. La differenza fu quasi impercettibile, l’oscurità creava varie sfumature di ombre sui corpi nella stanza. «Il mondo per la salvezza dell’anima» continuarono a salmodiare. Crollai, o non so bene cosa, ma mi svegliai accecato da una lampada sparata negli occhi. Volgendo lo sguardo in ogni altra direzione , l’oscurità. Qualcuno attaccò qualcosa alla corrente elettrica, poi una scossa, leggera, dalla sedia lungo la spina dorsale, le tempie… Ero in pieno elettroshock e qualcuno tentava di bruciarmi il cervello. La lampada accecante si spense e si riaccese. Seconda scossa, più forte, ora. Secca e ruvida. Ancora, la lampada si accese e spense. Terza scossa. Persi il conto, i muscoli tesi, induriti, le tempie quasi a spezzarsi, il sudore gelido che colava via. Svenni, credo. O, forse, era solo la luce ad essere andata via. Quel dannato bulgaro, quella sua maledetta cocaina, dannato Bobby, pensai, prima di riaprire gli occhi. Ancora oscurità, ancora legato braccia e gambe, come un salame. Qualcuno da dietro pose una mano di lattice sulla mia nuca. Mi spinse con il mento sul petto, in giù. Privo di forze, privo di senso ogni lamento, stordito. La mano afferrò un qualcosa e pigiò un pulsante tzzzzzzzzzzz. Una mano ferma a spingere la nuca verso il basso, l’altra con calma chirurgica a segarmi il cranio, cazzo. Non avevo capacità di reagire, sentivo le lacrime sgorgare lente e involontarie, la sensazione di stare dal macellaio, i due lembi della calotta che lenti si allontanavano. Il sangue che leggero scivolava giù lungo il collo. Caldo. Cristo Bobby, tu e la tua fottutissima famiglia dickensiana, andate a farvi fottere. Caldo, il sangue ora anche sulla fronte, già sugli zigomi, le guance. Le mani afferrarono appena da sopra gli orecchi la calotta, poi con calma l’alzarono. I filamenti di cellule vive, i nervi e la varia gelatina biologica, sentivo tutto questo staccarsi e sollevarsi, come levarsi lentamente il cappello dopo una giornata di pesca. Qualcuno gettò la calotta, giù per terra, con violenza, poi accese una lampada accecante. Ebbi appena il tempo di vedere sul cemento un ovale osseo scoperchiato e sanguigno, i miei capelli sul pavimento ancora attaccati. Ebbi il tempo di guardare dinanzi lo specchio per vedere la mia immagine riflessa nell’acqua torbida di sangue. Crollai, le tenebre mi avvolsero, sognai il mio cervello coperchiato scintillare stimoli elettrici nel buio torbido di quella cantina.
Rinvenni dal sepolcro, respiravo. Strinsi le dita dei piedi e quelle delle mani per capire se fossi ancora tutto intero. Soffiai dal naso. Ero stranamente ancora sopravvissuto allo scempio, ma sempre imbavagliato. Qualcuno scese i gradini con degli zoccoli di legno. Strash , strash, strash. Lento e trascinandosi, la sagoma giunse accanto al mio corpo martoriato. Puzzavo di sangue e sudore, ma, nonostante ciò, chi si avvicinò mi ricordò il fetore rancido di hamburger e cetrioli del ciccione che mi sedeva accanto all’autobus diretto per New York. Due dita unte e pesanti mi allargarono le palpebre, un occhio alla volta, mi posero all’interno un divaricatore, benché tutto fosse buio e opaco come sempre. All’improvviso la sagoma schiacciò l’interruttore e una luce perforante mi accecò. Due mani mi spruzzarono delle gocce negli occhi spalancati. Poi, afferrarono un bisturi che si fece sempre più vicino e, quasi impercettibilmente, spazzò via le gocce. La visione si fece nitida, la lama d’acciaio del bisturi, dalle mille smerigliature metalliche, si avvicinò fino a fendere da un lato la cornea e sollevarla fino a estrarla. La visione divenne appannata e incerta. L’operazione fu ripetuta anche sull’altro occhio. Il mio respiro divenne, ora, un soffiare, ma non potevo, non potevo muovermi, né, anche potendo, mi sarei mosso col rischio che il bisturi mi trapassasse il cervello.
Il bisturi si avvicinò, ancora, estraendo il cristallino, credo. Sentivo le mie pupille, nere come quelle degli anfibi, pulsare abbagliate dalla luce accecante. Dall’altro lato della luce, una mano, brandendo una specie di laser, iniziò lenta a bruciare le estremità del mio occhio, un occhio alla volta, mandando stimoli elettrici, puzza di bruciato della carne viva e umida. Le scintille divennero un’esplosione spaziale. Lo sfondo tornò nero, la luce accecante si spense, attraversai una visuale cosmica solcando scintille e scosse elettriche che formavano stelle e pianeti, fino a giungere al grande sole e, infine, indietro nel tempo il Big Bang rivissuto al contrario, l’esplosione divenne implosione. Tutto, infine, si spense, e l’oscurità più fitta mi avvolse. Qualcuno, infine, spinse premendo forte il pollice due chiodi fin dentro gli occhi, le punte fredde dell’acciaio si conficcarono lente contro le mie pupille fino al corpo vitreo i cui liquidi mi colarono giù per il naso e lungo la bocca. I lunghi chiodi, poi, penetrarono sempre più a lungo il cervello, vidi le due punte spingere il pulsante off e spegnermi definitivamente, infine, sopraffatto, privo di respiro, svenni.

***

Quando rinvenni, ero io ancora io, corpo intero e vivo, dormiente sul divano di una casa dispersa nel nulla del Connecticut. La realtà mi stava addosso come la verità di un incubo che mi martellava il cuore e mi faceva scoppiare i polmoni. Mai più, mai più. Avvolto dalla coperta di lana, le tempie gocciolanti di sudore, la pressione del sangue che rombava nelle orecchie, i polmoni in gola. Salii agile la scala del primo piano, in silenzio mi portai all’uscio della camera da letto della gentile signora predicatrice schizofrenica, o forse fu tutto una specie di incubo, entrai, la moquette spessa attutiva il mio passo felino. «Il mondo per la salvezza dell’anima, il mondo per la salvezza dell’anima», ripetei nel pensiero all’infinito questo mantra avvicinandomi al letto, così che quando le fui vicino spinsi forte una mano sul suo petto e con l’altra, brandendo il mio pugnale uccisore di bulgari, la trafissi per tre volte. La donna si agitò, sotto i colpi, ma la spinsi contro il letto forte come un tritasassi. Quando accesi la luce del suo comodino, la donna giaceva inerme, un filo di bava e sangue dalla bocca, esalando l’ultimo respiro sussurrò «Il mondo per la salvezza dell’anima, figliolo».
Svuotai la borsa della donna, pochi dollari e due anelli d’oro, presi il mio zaino e uscii veloce che ancora era notte. ‘Fanculo Bobby, la coca, il bulgaro, ‘fanculo la brava signora, le siringhe e i suoi tormenti, ‘fanculo gli incubi. Arriverò a New York, contratterò la coca a un ottimo prezzo con Mel, prenderò il primo bus per Tampa e mi godrò tutti i quattrini bevendo mojito e midori su qualche spiaggia bianca come la pelle della ventunenne che manterrò. Il cammino è lungo, lo so, e farlo a piedi nel nulla lo rende ancora più pesante. Passo dopo passo, ecco che schiarisce, sempre di più il cielo. Lontano, due fari veloci, squartano l’alba. Sembrano accelerare, ora, due luci dal tettuccio, una sirena stridente, la scritta POLICE in bianco sul parafango nero. Sono qui per me. In un attimo mi infilo nella boscaglia ai lati della strada, corro, corro fino a morire, senza fiato, avanzo solo di gambe, ma sembra che non vadano avanti, non più. Corro, corro fino a New York City, credo di averne avute già abbastanza.

 

Giancarlo Pitaro

 

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