Il restauratore

Racconto breve di Giuseppe Cetorelli

Molti anni dopo, nella sua vecchia casa, Gabriele si ricordò di quel mattino autunnale trascorso con un uomo che non dimenticò mai. All’epoca era un giovane studente del conservatorio, imberbe e pieno di speranze si recava due volte alla settimana in quell’elegante palazzo, dove ogni volta scopriva qualcosa di diverso. La città era immensa e piena di luci, ma di giorno tutto questo non si notava. Le uniche luci che lo impressionarono furono quelle naturali dell’autunno. «L’autunno è la stagione più colorata» pensava, «solo la pioggia lascia un po’ di amaro».

Per raggiungere la mansarda, dove si svolgevano le lezioni, si dovevano percorrere molte strade strette ed una sola larga, la principale. Accanto all’enorme cancello secentesco il museo delle cere illuminava la strada e Gabriele era sempre attratto da quei volti, talmente perfetti che se avessero parlato non avrebbero destato in lui il minimo spavento.

A svegliarlo fu un violento temporale, uno di quelli che lasciano il segno allagando le strade, intasando i tombini, creando pozzanghere grandi come stagni, dove ci si bagna più dal basso che dall’alto. Come ogni mattina scese dal letto, la sua camera era oscura e si decise ad aprire la finestra: lo fece e tra le stecche delle persiane la luce fioca elencò gli oggetti della stanza. Era tutto in disordine e lui, come sempre, in ritardo. Con la solita borsa si precipitò lungo le strade strette, correndo a perdifiato le attraversò di slancio, poi, imboccando la principale con impeto arrestò la corsa solo dinanzi al museo.

«Sono arrivato» pensò, finalmente il palazzo era proprio lì accanto. Doveva solo varcare il cancello e svoltare a sinistra, percorrere due rampe di scale in salita e bussare alla porta della mansarda, che aveva la consistenza del legno vecchio. Nel chiostro che si lasciò rapidamente alle spalle una vite americana sfoggiava un rosso intenso, come mai ne aveva veduti. Gabriele era affascinato dai colori della natura, specie se effimeri come quelli della vite americana in autunno.

Bussò con garbo ma la porta si mosse e, subito dopo una voce chiara di donna si levò «non ancora Gabriele, ti tocca aspettare questa volta» , «non si preoccupi professoressa aspetterò» rispose il giovane. Dalle finestre del corridoio, il sole, spostando a fatica una nuvola entrava di soppiatto sfiorando il filo di luce diafana che si allungava dallo sfondo e, come un alfiere fendeva obliquamente l’ultimo tratto di corridoio.

Il filo di luce proveniva da una porta che di solito trovava chiusa; per vedere al suo interno doveva camminare rasente la parete e spostare un po’ la testa. La stanza che si intravedeva annunciava le sue bellezze e questo incuriosì non poco Gabriele, il quale si risolse ad avvicinarsi. Nel frattempo l’uscio si aprì completamente e come uno scrigno o un forziere di un galeone affondato rivelò i suoi tesori: le pareti erano foderate da arazzi che rappresentavano signori d’altri secoli, sussiegosi, in pose solenni. Quadri dalle cornici barocche con scene di caccia e paesaggi adornavano le rare superfici orfane. Gabriele fu travolto da quelle immagini e dimenticò che in un angolo c’era un uomo anziano, intento al restauro di una natività. L’uomo era avanti con gli anni, le mani un tempo forti ora apparivano scheletrite, rivestite di una pelle sottile come un panno di lino, una evidente curvatura della spina dorsale gli donava l’immagine di un essere che sosteneva il proprio passato, fattosi materiale e presente nello spazio.

Gabriele lo sorprese mentre curava i contorni di Gesù appena nato. «Posso entrare o la disturbo?». Il restauratore si girò e sorrise «prego giovanotto, entra pure, io mi chiamo Stanislao e sono il papà della tua insegnante», il vecchio intuì dalla borsa che fosse uno studente.

Gabriele varcò la soglia di quel laboratorio e si accorse che aveva una temperatura diversa da quella del corridoio. Un tepore autunnale lo accolse, lo abbracciò e lo mise a sedere su una sedia imbottita e sericea. «Che bella che è questa natività» disse il giovane, rapito. «È vero è un capolavoro della pittura fiamminga» disse Stanislao.

«Se Gesù tornasse ora tra gli uomini, giovanotto, se potesse farsi di nuovo uomo tra gli uomini non riconoscerebbe le creature che ha salvato dal peccato». «A sì e cosa vedrebbe ?» disse Gabriele. «Vedrebbe i suoi figli ancora in balia del peccato, violenti gli uni contro gli altri, si accorgerebbe con sgomento che la sete di dominio, la voluttà e l’egoismo sono ancora presenti, malgrado il suo passaggio» sospirò il restauratore, posando il pennello e mettendosi seduto su uno sgabello di fronte al ragazzo.

«Non fu Gesù a dire amatevi l’un l’altro come io ho amato voi ?» fece il giovane.

«Certo, ma l’uomo ama se stesso più di ogni altra cosa ragazzo mio; è questa la verità». «Che tristezza… Ma allora se non c’è riuscito Lui a cambiare l’uomo, chi riuscirà in questo?» domandò Gabriele. «Forse solo l’uomo potrà salvare l’uomo, dipenderà da come deciderà di agire» rispose il restauratore alzandosi dallo sgabello e dando le spalle al giovane. «Ancora non abbiamo imparato ad amare, come fanciulli inesperti non sappiamo riconoscere che l’uomo è vivo quando ama ed è morto quando odia». «Che cos’è per lei il sentimento dell’amore?» disse Gabriele alzandosi dalla sedia di broccato. «L’amore è silenzioso come un filo d’erba, ma se ci fai caso il filo d’erba buca le strade e tende verso l’alto… Ricorda Gabriele, tutto ciò che è vivo è verticale, tutto ciò che è morto è orizzontale. Questo è il segreto della croce». Gabriele rimase ad ascoltare assorto la sapienza di quel restauratore; non riuscì a replicare e il silenzio fu rotto dal cigolio della porta che dava accesso alla mansarda, dall’altra parte del corridoio. Ora si sentivano chiari i battiti del metronomo che con la porta chiusa si percepivano appena, un frusciare di fogli lo persuase ad abbandonare il laboratorio di Stanislao. Si salutarono in fretta, senza parlare, con uno sguardo d’intesa.

«Gabriele dove sei? Puoi entrare è il tuo turno» disse simpaticamente la professoressa dalla soglia della mansarda. «Lascia stare mio padre è un vecchio sognatore» aggiunse.

Molti anni dopo, seduto accanto al camino, si ricordò di quel mattino in cui conobbe Stanislao e per tutta la vita non dimenticò le sue parole: la natività, l’uomo, il peccato, l’odio, l’amore come un filo d’erba. Stanislao era morto ma la sua lezione era ancora viva nei pensieri di Gabriele. Era sufficiente che arrivassero i colori dell’autunno perché se ne ricordasse.

di Giuseppe Cetorelli 

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