I miei Americani…

L’esistenza compresa attraverso la letteratura: disoccultare quello che resta celato agli occhi del corpo

In questo saggio parlerò di un pugno di libri, quelli d’oltreoceano, della letteratura americana che ho avuto agio di conoscere e frequentare. In Italia abbiamo ignorato per lungo tempo gli americani, certamente per indolenza, o forse per una carsica alterigia. Per molti anni si è ritenuto che la letteratura continentale (Europea) fosse tutto e che le stratificazioni della sua tradizione rappresentassero il vertice assoluto, dimenticando di osservare quello che avveniva in giro per il mondo.

 

Nell’Ottocento nacque il romanzo americano moderno e “Moby Dick“, il capolavoro di Herman Melville, è il precursore dei romanzi che prenderò in considerazione in questa sede. Straordinaria è la traduzione di Cesare Pavese, anche perché la prima in lingua italiana. Il tormentato Pavese ebbe il merito di far conoscer al pubblico italiano la letteratura americana, di renderne i colori, la temperatura, il sapore talvolta aspro ma ad un tempo affascinante. Harold Bloom, un grande critico letterario statunitense, definì “arduo” il modo in cui leggere l’opera di Melville: intensa, colta, difficile, metaforica, shakespeariana, omerica e veterotestamentaria. Il capitano Achab è il protagonista di uno dei romanzi più importanti del Novecento, dall’incipit indimenticabile: «Chiamatemi Ismaele». La prima volta che lessi il romanzo fui subito scosso da questo esordio. La voce narrante si presenta al lettore con umile solennità, chi ama la grande letteratura non può non sentirsi attratto da una siffatta “apertura di sipario”. Come affermava il critico Bruno Traversetti: «Le prime frasi di un libro rappresentano l’esplosione semantica che genera e avvia il cosmo romanzesco e ci consentono di coglierne i caratteri, di intuire panorami e sviluppi futuri». Dal punto di vista tecnico Achab è un eroe negativo, responsabile della morte del suo equipaggio, compreso se stesso, con l’unica eccezione del Giobbe sopravvissuto, il narratore che ci invita a chiamarlo Ismaele. La ferma intenzione di catturare e uccidere la balena bianca, il mostro, il Leviatano, si tramuterà in una epopea mortale. Il tessuto narrativo è screziato, i riferimenti all’Antico Testamento avvolgono il racconto in una soffice coltre iperbolica. Lungo il corso dell’opera i momenti di perfezione stilistica e incanto letterario sono molti, ora qui vorrei citare il primo capoverso del capitolo CXXXII, dal titolo “La Sinfonia“. «Era una giornata tersa, di turchino acciaio. I firmamenti dell’aria e del mare apparivano quasi inseparabili in quel profuso azzurro; ma l’aria pensosa aveva una trasparenza pura e morbida, un che di femmineo, e il mare robusto e virile si gonfiava in ondate lunghe, poderose, indugianti, come il petto di Sansone addormentato». Attraverso la narrazione dell’infausta avventura del “Pequod“, Melville costruisce una grande metafora del male. Un male bianco, il colore della balena (capodoglio), nel quale si cela qualcosa di elusivo che genera più panico all’animo di quanto il rosso non spaventi con il sangue.

 

«Mi decisi a perseguire la strada del giornalismo dopo aver letto Martin Eden di Jack London». Queste sono parole di Enzo Biagi, grande giornalista, e questa dichiarazione la consegnò nelle mani di un intervistatore curioso. Per un libro non è poco aver inciso in maniera così decisiva nella vita di una persona. Però alle volte avviene, i libri possono cambiare una vita e rinnovarla, renderla migliore. Possono produrre rivoluzioni, palingenesi, oppure tragedie immani secondo la mente che li legge. “Martin Eden” è un’altra pietra miliare, il secondo pilastro della letteratura d’oltreoceano. È il racconto insuperato di un uomo che vuole scrivere, partendo da una condizione sociale che lo vede marinaio incolto e rozzo. Martin è il rappresentante del sottoproletariato ineducato della seconda metà dell’Ottocento. Un ragazzo intelligente che vuole crescere, migliorare la sua condizione, istruirsi, acculturarsi sino al punto da diventare uno scrittore. Attraverso molte peripezie riesce a frequentare le ricche case borghesi, ad imparare la buone maniere, varcare la soglia di biblioteche, leggere libri di filosofia e, infine, ad innamorarsi di Arthur Ruth, giovinetta di inarrivabile estrazione sociale. La storia è il calco della vita di Jack London, un romanzo autobiografico scritto con uno stile ricco al punto da rasentare l’arabesco. Come London sia riuscito a diventare un grandissimo scrittore, da mozzo semianalfabeta, si spiega soltanto con una forza di volontà che fa pensare al miracolo. Inviterei a leggere il finale di “Martin Eden“, poiché è tra i più importanti di tutta la nostra storia letteraria.

 

Da questi due romanzi si arriva, per lenta evoluzione, alla letteratura novecentesca di William Faulkner ed Ernest Hemingway, scrittori molto diversi ma egualmente importanti.

Il primo fu uno stilista della lingua paragonabile agli europei Marcel Proust, James Joyce e Virginia Woolf. Il modernismo sperimentalista e lo spessore psicologico rendono i suoi romanzi estremamente complessi e ricchi di pathos.

Hemingway invece gli si oppone con uno stile asciutto, conciso e minimalista, scarno ma ad un tempo incisivo come pochi. Fernanda Pivano, sua grande ammiratrice e traduttrice, definì il suo stile «Agile e scattante come una gazzella, semplice come solo quello dei grandi, in grado di arrivare a chiunque», capace di svelare profondissime verità in frasi di tre parole. Mi tornano alla mente le temperature di romanzi come “Il vecchio e il mare“, “Per chi suona la campana“, “Addio alle armi” e “I quarantanove racconti“, in possesso di una architettura narrativa perfetta. Veri capolavori capaci di entusiasmarmi, sembra quasi che Hemingway sia lì con te mentre leggi e ti aiuti a sfogliare le pagine. Tale, tanta e intensa è la sua presenza nelle sue storie che si fa fatica a credere sia morto 54 anni fa. Morì suicida come London, il 2 luglio del 1961. Due cartucce esplose dal suo caro fucile gli squarciarono la testa.

 

Questa breve navigazione nella “mia” letteratura americana arriva a toccare anche gli artisti della ‘Beat Generation’, Jack Kerouac su tutti. Un geniale scrittore maledetto, un’artista dedito a solenni sbronze che, con una penna tra le dita, anche da ubriaco riusciva a deliziare. Nacque nel 1922 e pertanto apparteneva a quella generazione che visse la grande crisi economica del ’29 e la Seconda Guerra Mondiale. “On the road“, il suo capolavoro, divenne il manifesto della Beat Generation e tutti gli scrittori che vennero dopo trovarono ispirazione nella sua “prosa spontanea”. Al di là di tutto, questo precursore, mi colpì per l’accento che pose sulla riflessione esistenziale e la dimensione del viaggio (poiché anche la vita di ciascuno è un viaggio); svelare l’enigmaticità dell’esistenza è considerata dallo scrittore la sola attività importante a questo mondo. Mi affascinò l’intento di Kerouac di entrare nelle pieghe dell’esistenza e cercare di comprenderla tramite lo strumento ottico della letteratura. D’altra parte è la missione che ogni artista tenta di compiere: disoccultare quello che resta celato agli occhi del corpo.

Giuseppe Cetorelli

 

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