Gramsci e l’Italia fascista

Il suo lascito è che si può morire per un’idea pur di affermare la propria dignità di uomo libero, anche quando la libertà ha il sapore di un reato

Era un inverno tiepido in Sardegna quello del 1891. Ad Ales, in provincia di Oristano, le famiglie di fine ottocento erano molto numerose e si arrangiavano come potevano, cercando di legare il pranzo con la cena. Il 22 gennaio in una di queste nacque Antonio Gramsci, uno dei più grandi pensatori del Novecento italiano. Quarto di sette figli di Francesco Gramsci e Giuseppina Marcias, l’infanzia e la prima giovinezza furono tormentate da malanni fisici di vario genere; a seguito di una caduta gli riscontrarono una malattia alle ossa che lentamente deformò la sua schiena. Il giovinetto appariva vivace, brillante, ottimo scolaro, aveva una inclinazione per le attività intellettuali che lo innalzava al di sopra degli altri. Il destino, per chi ci crede, gli riservò una carriera scolastica farraginosa e una vita avventurosa: conseguita la licenza al liceo classico Dettori di Cagliari nell’estate del 1911, si iscrisse alla facoltà di Lettere dell’Università di Torino che frequentò fino alla primavera del 1915, senza laurearsi. Un non laureato di straordinaria curiosità e cultura, come Benedetto Croce, capace di mutare il ruolo degli intellettuali all’interno del dibattito politico.

Antonio Gramsci «fu un teorico della politica, ma soprattutto fu un politico pratico, cioè un combattente» (affermò Palmiro Togliatti al Convegno di studi gramsciani del 1958). Tutti, o quasi, quando sentono nominare Gramsci pensano alla nascita del PCI (fondato assieme ad Amedeo Bordiga, Livorno 1919), ma credo sia riduttivo considerarlo solo un corifèo, un agitatore e fondatore di partito. Fu, per converso, un intellettuale completo e assoluto; esercitò la professione di giornalista per quindici anni, prima di essere arrestato.

Collaboratore fin dall’ottobre del 1914 del settimanale socialista “Il Grido del popolo“, il 10 dicembre 1915 entrò a far parte della redazione torinese dell’ “Avanti!“, di cui fu redattore anche Benito Mussolini, continuando a collaborare al settimanale. Iscritto al Partito Socialista nel 1913, dall’estate del 1917 affiancò all’attività giornalistica quella di organizzatore politico divenendo Direttore di fatto del “Grido del popolo” e segretario della Commissione Esecutiva Provvisoria della sezione torinese del PSI.

La fondazione insieme ad Angelo Tasca, Palmiro Togliatti, Umberto Terracini e Ignazio Silone del settimanale “L’Ordine nuovo“, nell’aprile del 1919, segnò il suo passaggio definitivo dal giornalismo al professionismo politico. La sua parabola giornalistica, intellettuale e politica, coincise con la nascita del fascismo e della sua evoluzione: la vita, i pensieri, l’attività di scrittore e politica si plasmarono sul volto del fascismo. Cercò di enucleare le ragioni profonde del suo dispiegarsi, di coglierne la natura e di capire come sia riuscito ad entrare nelle viscere degli italiani, sino ad esercitare una tirannia che trascinò l’Italia nella Seconda Guerra Mondiale.

In realtà dobbiamo affermare che in vita fu essenzialmente un giornalista, la fama filosofica sopraggiunse postuma con la pubblicazione dei “Quaderni del carcere” e delle “Lettere dal carcere“, su cui mi soffermerò più avanti. Molti lo hanno definito a ragione il più grande teorico marxista europeo dopo Lenin, a mio avviso quello che invece colpisce di Gramsci è la formidabile lungimiranza dei suoi scritti. I suoi articoli “ordinovisti”, e non solo, sembrano redatti da uno storico del presente che osserva i fatti del passato, con una pletora di documenti a disposizione, attraverso le lenti del già accaduto. Gramsci scriveva mentre il fascismo imperversava con le sue violenze efferate, totalmente immerso in quella lotta e in quel dibattito, era venuto cogliendo, giorno per giorno, le peculiarità e il ruolo storico-sociale di quei fasci di combattimento, di quelle squadre d’azione che nello scenario europeo costituivano un dato del tutto nuovo. Colse prima degli altri il pericolo dei fascisti, prefigurò la deriva a cui avrebbe condotto il regime di Mussolini.

Tutta l’opera di Gramsci, quella politica e quella “letteraria”, investe il fascismo nei suoi vari stadi e aspetti, dalle sue radici e origini agli sviluppi più maturi, colti fra la crisi economica del 1929 e la vigilia della guerra (Gramsci morirà nel 1937). Lo spirito combattente del filosofo della praxis lo portò a dire che il fascismo è la rivoluzione passiva del XX secolo: la passività delle masse dinanzi al verbo dittatoriale, l’azzeramento della capacità critica di giudizio, la malattia morale della borghesia. A proposito della classe borghese, c’è da dire che fu proprio la piccola e media borghesia urbana la base d’appoggio del fascismo, la classe sociale che soddisfece i primi appetiti dei fascisti.

I “Quaderni del carcere“, ai quali accennavo prima, si presentano come uno zibaldone di pensieri, saggi, scritti riguardanti la politica, la storia e la filosofia. Rappresentano una delle maggiori opere filosofiche del Novecento che Togliatti definì come «la storia d’Italia vista attraverso il materialismo storico»; non fu un progetto sistematico concepito da Gramsci per una pubblicazione, fu la testimonianza di un intellettuale in catene.

 

Arrestato nel novembre del 1926 (l’anno delle leggi speciali o fascistissime), nonostante non avesse violato alcuna legge e fosse un parlamentare, nella sua cella cominciò a scrivere sui quaderni messi a disposizione dalle autorità carcerarie. Gramsci fu arrestato, confinato, processato nel 1928, condannato a venti anni di reclusione dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato; i capi d’accusa ascrittigli furono: Istigazione alla guerra civile, Apologia di reato, Incitamento all’odio di classe. La dittatura fascista voleva spegnere il cervello di Antonio Gramsci, impedire che funzionasse, metterlo nelle condizioni di non nuocere più al regime, evitare che al popolo arrivasse la sua voce. Nei “Quaderni del carcere” si legge del fascismo come l’illegalità della violenza capitalistica al potere, della lotta contro il capitale, della lotta di classe per l’affermazione del proletariato, di filosofia morale e della lotta senza quartiere contro ogni forma di sopraffazione. Mentre la sua mano scriveva, nella mente vi era marchiata a fuoco la persuasione che il male non riuscirà mai a prevalere.

Le “Lettere dal carcere” tratteggiano una sorta di diario intimo, personale, profondamente legato agli affetti familiari. Sono indirizzate alla madre, ai fratelli, alle sorelle, alla moglie Giulia, ai figli Delio e Giuliano. Lettere dalle quali emerge il pudore di Gramsci ad esprimere un sentimento d’amore, un affetto, ad abbandonarsi a una emozione o anche a un risentimento. Nonostante ciò si avverte sempre una forte tensione emotiva dovuta alla carcerazione, alle limitazioni e restrizioni a cui è sottoposto. Il regime carcerario non gli consente di scrivere liberamente, tutte le lettere passano al vaglio della censura, la quale decide se farle recapitare al destinatario o meno. Per il Governo fascista era un uomo pericoloso da controllare a vista. Alcuni passi delle Lettere meritano di essere citati per il valore simbolico che rappresentano, ve n’è una indirizzata alla mamma che rassicura con toni pacati ma fermi: «Sono in prigione perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in carcere […] vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini». Scorrendole una alla volta il lettore viene posto dinanzi allo spettacolo di una tragedia personale, un dramma esistenziale che Gramsci ha cercato di curare nutrendo la sua sconfinata sete di conoscenza. Molte missive grondano di libri che vorrebbe studiare, decine e decine di titoli che accumula e legge avidamente nei tempi lunghi della prigionia.

 

Il lascito di questo grande pensatore è che si può morire per un’idea, per l’incrollabile volontà di affermare la propria dignità di uomo libero, in una temperie in cui la libertà ha il sapore di un reato. Fu l’assertore della Rivoluzione permanente, della conquista violenta del potere e della marxista dittatura del proletariato. È stato uno storico del nostro paese, un acuto analista dei meccanismi della politica e un grandissimo prosatore, uno scrittore sopraffino come Benedetto Croce. Antonio Gramsci non riuscirà a vedere la fine della sua carcerazione, si spegnerà all’alba del 27 aprile del 1937, nella clinica romana “Quisisana” dove era ricoverato dal 1935. Da pochi giorni poteva considerarsi libero avendo scontato la pena che era stata ridotta, via via, dalle amnistie del regime. I suoi ultimi pensieri li rivolse alla famiglia, sperando di essere presto dimesso, chiese alle sorelle di trovargli una camera a Santu Lussurgiu e aveva già pronta una domanda di espatrio per raggiungere la moglie Julca (Giulia) e i figli Delio e Giuliano a Mosca.

 

Giuseppe Cetorelli

 

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5 Comments

  • Tradito dai compagni e riconosciuto pensatore postumo. Articolo leggermente elegiaco ma mi complimento con l autore

  • però i bignami del terzo millennio li sa scrivere solo il nostro Giuseppe di Uki! ahahahah !!!
    altro saggio chiaro e rivelatore della poetica dell’autore , in questo caso un pezzo di storia del nostro paese

    • un intellettuale figlio dei tempi, d’altronde o stavi di qua o stavi di la’!
      splendido saggio di Cetorelli , soprattutto perche’ ci presenta anche il Gramsci uomo e pensatore, prima che fondatore del partito comunista

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