Fink @Teatro Quirinetta (Roma) – 01/2015

Fink all’ultimo respiro..

.«Non s’è mai visto che uno va a un concerto per sentirsi dire shhh..».
Lo dice con un mezzo sorriso polemico, lasciandosi dietro il rosso della tenda ondeggiante, sipario tra il nerofumo della sala e il giallo arcigno del corridoio. Io sono seduto su un gradino, volevo ricordare il sapore dell’ossigeno. Oltre la tenda imperversa il magnetismo di Fink.

Siamo nel Teatro Quirinetta, centro di Roma, due passi dalla fontana di Trevi. Tra il corridoio e la sala c’è uno scarto di temperatura di almeno dieci gradi, mi chiedo se non sia io a non avere più il fisico per certe cose ma intanto altra gente esce annaspante. Ne approfitto per pensare a cosa scrivere di un concerto che non riesco a vedere. Forse la cosa migliore è raccontare tutto dall’inizio.

L’inizio è la coda di gente fuori, in attesa di entrare. È davvero tanta, segno del segno che il signor Fink ha tracciato da queste parti (già prima di prestare il suo nome a tutta la band). Sono contento, si prevede una bella serata. I primi segnali di confusione arrivano dal signor Buttafuori, forse alla prima esperienza, che prima spedisce gli addetti stampa ad accodarsi alla fila e poi torna a cercarli per invitarli a entrare come se fossero degli addetti stampa. Vabbe’, piccole incomprensioni.

Poi si scende, il teatro Quirinetta è una lenta discesa nella strettoia di corridoi, impreziositi dalle decorazioni decadenti di statue e lampadari di un fascino che solo Roma sa darti. La discesa sfocia in una sala spiazzante, dove tutto quello che il tragitto ti ha suggerito non c’è. Nessuna poltroncina, Il pavimento è una legnosa pendenza che scivola verso la parete in fondo dove trovi il palcoscenico incastonato nella parete. Non è il teatro per borghesucci che t’aspetti vicino a via Nazionale. Il palco è così poco profondo che riesce a creare un effetto paradossalmente dirompente, come se ti sfondassero una fiancata di casa e ci mettessero una cornice animata gigante. Affascinante, di sicuro, ma anche straniante: proprio come se fosse un quadro appeso, non c’è nessuna distanza tra il pubblico e il boccascena. È la prima volta che vengo qui, e non so se è la prassi, ma la vera impressione che si ha è quella di un centro sociale ai Parioli. Antichi lampadari penzolano sopra il banchetto delle birre, drappi rossi che accolgono hipster stravaccati, buone cose di pessimo gusto. Che pittoresca alchimia.

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Intanto la fotografa lamenta l’assenza di un’area stampa, dice che non ha senso portarsi tre chili e tremila euro di attrezzatura appresso per poi fare delle foto nella calca. “Povera borghesuccia raccomandata –penso– che non è alternativa come me e non capisce lo spirito della faccenda”. Poi finalmente si silenziano le luci ed entra in scena Douglas Dare, apertura della serata. Capello biondo svolazzante da gerarca nazista a corto di brillantina, bellissimo timbro vocale –pulito e caldo– ma non particolarmente originale; è così che il ragazzo imperversa sulla tastiera accompagnato da un percussionista che non sa fare il suo lavoro di spalla e ruba tutta la scena. Accade che uno finisce per concentrarsi sulla sonorità ritmica, in bilico tra il tribale e l’elettronico, lasciando il cantante in disparte. Ma non è la cosa peggiore, se si considerano i movimenti degli addetti ai lavori, signori che si ostinano a trasportare casse di birra salendo ai lati del palco mentre questi due poveracci d’oltremanica offrono l’anima suonando tutto quello che hanno. Che ci sia un mostro assetato dietro le quinte che chiede in sacrificio non più vergini ma birre?

Non lo so, quello che è chiaro è che la sala comincia a riempirsi troppo. La macchina del fumo fumeggia come non mai, il pianista ha finito, torna a riprendersi la tastiera dopo aver inforcato gli occhiali per sembrare un impiegato del catasto comunale e poi boh. Il rodie ci mette una ventina di minuti ad accordare tutte le corde. Si riabbassano le luci, la gente ha scambiato la sala per un vagone della metro B e la macchina del fumo fumeggia. Mezz’ora buona di altoparlanti con tre note in loop che vogliono palesare il senso profondo de l’Eterno Ritorno di Nietzsche. E poi il fumo. Lo sentite anche voi questo caldo?

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Quando i Fink salgono finalmente sul palco, si intravedono solo sagome informi nella coltre. Odio le persone che mi contendono le molecole di ossigeno e quelle che continuano ad entrare ad avvalorare la causa a favore dell’anidride carbonica. Al posto di “exit” le uscite di sicurezza riportano la scritta “speranza” e il concerto inizia. Si accendono le colonne di luci sul fondo e sono uno spettacolo a sé stante, meraviglioso. Sarebbe così bello gustarselo senza l’apnea. La fotografa ha rinunciato all’idea di scattare, dice che non è bello vedersi arrivare gomitate sulla macchina fotografica, che per scattare foto inscatolati come il tonno c’è il telefono.

Qualcuno deve averla sentita, perché in mezzo alla nuvola di fumo si alza una nuvola di smartphone sognanti, pròtesi della nuova umanità. Perché guardarsi un concerto su YouTube quando puoi andare a vederlo attraverso uno schermo dal vivo? L’amore trionfa, le mani sono alzate ancora come negli anni ’70, qualche accendino in meno e qualche cellulare in più, ma è il principio che conta. Poi, a casa, potranno rivedere il filmato per capire che cosa stava accadendo mentre loro riprendevano.

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Ma fa caldo, siamo alla seconda canzone e non ce la faccio più, non riesco neanche a capire cosa c’è sul palco, mente la fotografa impazzita si è messa pure lei a scattare foto di merda con il telefono polemicamente. Paranoie e claustrofobia, se scoppia un incendio qui siamo tutti morti? La sensazione è che l’organizzazione abbia continuato a staccare biglietti senza curarsi di quanta gente poteva effettivamente entrare, senza preoccuparsi di mettere delle bombole di ossigeno per i vecchi come me. Ma sono sicuro che è solo una sensazione. Però basta, mi sposto. Oltrepasso la fiumana di giovani che c’hanno il fisico per sopravvivere e mi siedo in corridoio a respirare, che è un hobby sottovalutato.

Mi siedo su un gradino e mi chiedo se sono io a essere troppo chiappedolci, se sono uno che piange perché si aspettava le poltrone e questa è roba underground. Ma il fatto è che la musica dei Fink, credo, andrebbe affrontata con un altro approccio. Non è musica per saltellare, nemmeno da ascoltare: è da sentire, lasciarsela fluire addosso e perdercisi dentro. E invece l’unica cosa che mi sono perso è il concerto, che è rimasto confinato oltre la tenda e oltre l’aria. Se non altro non sono l’unico che scappa, dopo di me tanti cercano rifugio. Li guardo passare mentre gli addetti ai lavori si preoccupano della temperatura che ha raggiunto la sala e di come farla scendere. Ma dentro c’è proprio casino, vociare di gente che parla mentre tanti altri (presumo quelli che hanno pagato il biglietto del concerto per sentire il concerto e non quelli che parlano durante il concerto) cominciano a fare sshhh!, per azzittirli. Esce uno indispettito.

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«Non s’è mai visto che uno va a un concerto per sentirsi dire shhh..».
Lo dice con un mezzo sorriso polemico, lasciandosi dietro il rosso della tenda ondeggiante, sipario tra il nerofumo della sala e il giallo arcigno del corridoio. A teatro ti dicono shhh.., al centro sociale no. Ognuno interpreta il posto come meglio crede. Io ho altro da fare, ora: sto pensando a come scrivere questo report senza essere polemico, per una volta.

Sembra difficile, ma sono certo che troverò un modo.

 Matteo Mammucari

Foto: Sofia Bucci

 P.S. -La fotografa implora perdono per non aver scattato selfie.

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