ESCLUSIVA/Uki Report- Festival Internazionale del film di Roma (Part.2) > “Hard to be a God” (A.Y.German)

Un film monumentale che coinvolge lo spettatore a livello emotivo e sensoriale

Cioè come darsi delle arie da intellettuale senza esserlo

Allora questo è Ukizero, e non uno di quei siti o posti dove bisogna fingere di sapere le cose. Io sono Gabriele Mastroianni e non sono tipo da paventare conoscenze che non ho. Quindi in totale sincerità dobbiamo dire delle cose prima di partire con la vera e propria recensione di questo film. C’è bisogno di contestualizzarla. Anche perchè non è un semplice film. “Hard to be a god” (già “History of the Arkanar Massacre“) è un’opera grandiosa (non solo per durata) di un cineasta russo, tale Aleksei Yuryevich German, che gli ha dedicato 14 anni della sua vita e che è morto prima di completarlo. Un incompiuto postumo, quindi, completato dalla moglie che è anche la sceneggiatrice (poi vedremo il capitolo sceneggiatura, nella recensione vera e propria).

Al Festival il regista è stato acclamato da molti addetti ai lavori come genio visionario e grande artista, prima ancora di vedere il film, celando, male il fatto di non sapere nulla e di non aver visto nulla dei suoi lavori passati, ma parlando solo per sentito dire.

Uno dei sentito dire viene da chi ci capisce di cinema, come Gilles Jacob, che, citato anche da Marco Muller, affermava che questo film, una volta completato e proiettato, sarebbe stato in grado di rimettere in discussione la concezione di cinema ed entrare quindi a pieno diritto nella storia cinematografica.

Muller ha voluto a tutti i costi questo film per il Festival del Cinema di Roma (ma perché poi metterlo fuori concorso?), facendone il suo fiore all’occhiello, ma poi sbagliando per ben due volte il nome del film, dicendo “E’ difficile essere un uomo“, fra le facce sorprese e le risatine della sala. Le mie non si sono aggiunte. Mi ero già addormentato durante la prolissa introduzione del film, con persino la lettura di una lettera-analisi di Umberto Eco sul film (cosa c’entrava??). Poi un po’ di discorsi auto-compiacenti da parte di figlio, moglie, curatrice del film che facevano notare come un film del genere solo in Russia si sarebbe potuto fare (ma perché?) in quanto è l’unico paese che riesce ad andare contro un certo canone estetico cinematografico radificato (ah ecco perché). Insomma stiamo ancora in Guerra Fredda. Io personalmente mi sono immaginato quella scena (dei Simpson mi pare) dove durante una parata di Carnevale per le vie di Mosca di punto in bianco i “carri ornati” si levano gli ornamenti e si rivelano in quanto “carri armati” e sbucano fuori militari e chi altro ne vuole per riconquistare la terra.

Dopo questa sparata sull’estetica attuale della cinematografia mondiale hanno modestamente aggiunto che entrerà nella storia del cinema russo e che verrà in futuro considerato come uno dei migliori. Gli spettatori, composti da mezzo stato (ministri e funzionari) russo e mezza Urss, applaudivano entusiasti. Io iniziavo ad avere freddo; l’aria condizionata era a palla, forse con l’intento di ricreare l’ “effetto Russia“.

Davanti mi si prospettavano 177 minuti di gelo (ecco perché ora ho la febbre). Forse per questo metà sala è scappata dopo un’ora. O si è addormentata (russando forte tra l’altro). Compresi tutti quei grandi cultori del regista e dei suoi lavori (ripeto, secondo me senza aver mai visto nulla) che lo osanneranno davanti a un calice di vino con amici e ti importuneranno con domande tipo “Ma non conosci Aleksei Yuryevich German? Non hai visto nulla? Neanche il suo capolavoro Hard to be a god?“. Se, anche, critici faranno una recensione generica e metafilosofica dalla quale non si noterà che in realtà del film hanno visto 20 minuti e nel quale verrà osannato per partito preso radical.

Io non sono così, per cui la mia recensione che seguirà sarà molto più sincera.

 

Recensione vera e propria… ovvero, il filmone capolavorata pazzesca.

Hard to be a God” -È difficile essere un Dio- è un film monumentale, che coinvolge lo spettatore a livello emotivo e sensoriale. Tratto dal romanzo fantascientifico omonimo, pubblicato nel 1964. Gli autori sono i fratelli più famosi della storia della letteratura russa: Arkadij e Boris Strugackij. Due che hanno cambiato il settore della letteratura fantascientifica russa e con Hard to be a God avevano già ispirato un film e persino videogioco. Insomma German non ha creato nulla. Né sceneggiatura originale (per quanto rielaborata, male, dalla moglie e sceneggiatrice Svetlana Larmalita) né a livello visivo qualcosa di mai raccontato (ma è importante il come). Anche la trama, alla fine per come è resa ne esce svilita e indebolita. Si perdono i punti di contatto al suo interno, per favorire un enormepolpettone di fango ed escrementi. Dalla sua il film ha una potenza visiva e metaforica che fanno da contraltare alle altre mancanze.

 

Il film narra di un futuro, abbastanza lontano, dove sulla Terra si è compiutamente realizzato il comunismo e l’umanità vive nella pace e nell’abbondanza dominata da un consiglio di saggi tecnocrati. Gli astronomi scoprono che ci sono altri pianeti abitati e spediscono un gruppo di saggi su uno di questi, il pianeta Arkanar, per osservarlo senza interferire. Il pianeta è in tutto e per tutto uguale alla Terra, ma è fossilizzato a uno stadio socio-economico corrispondente al medioevo; un mondo che non ha mai conosciuto (e forse mai conoscerà) il Rinascimento. La nostra prospettiva è quella di Anton, uno dei saggi e noto sul pianeta Arkanar come il nobile Don Rumata. Egli si trova in conflitto fra l’ordine dei saggi terrestri di non interferire con il percorso del pianeta e il coinvolgimento sentimentale ed emotivo per un popolo che vive nei soprusi, nelle più schifose bassezze e in una perenne guerra. È come se fosse un Dio, ma non può compiere gesti eclatanti, fare del male o uccidere, si limita a salvare gli intellettuali e gli scienziati che in quel mondo vengono impiccati e messi al rogo per volere del sovrano Don Reba che crede che essi siano la colpa della rovina dello stato. Il suo continuo dubbio è su come agire; sul come fare ad essere un Dio giusto.

 

Ecco la trama è bellissima e proviene da un romanzo, che consiglio di leggere (e che voglio leggere anche io), ma nel film questa viene completamente persa.

Se io non avessi letto la sinossi del libro non sarei stato assolutamente capace di seguire il percorso della storia. La sceneggiatura è stretta all’osso e i dialoghi sembrano campati per aria, fuori filo in continuazione. Tutto ciò probabilmente genera un senso di estraniazione voluto, ma oltre che rimbambire a livello narrativo non crea altri effetti magici.

Quello più interessante è la volontà di fare “straniamento” invece. Voler raccontare una visione abituale di un contesto (quello medioevale) in un modo che non è abituale, arrichendolo di significati.

L’uso della telecamera e delle immagini è unico e potente. Piani sequenza infiniti, con decine e decine di comparse, dai volti scomposti in espressioni disgustose e disumane. Inquadrature oscillanti, in prima, terza e quarta persona che seguono il percorso del protagonista che in continuo movimento si sposta su diversi piani scenografici e concettuali.

La telecamera è perennemente impallata da oggetti che le si piazzano dinnanzi, con la volontà quasi di entrare dentro la cinepresa e sporcare di fango e merda il pubblico. Contrapposto totalmente allo stile poetico, soffuso, etereo e sopraffino di Sokurov; qui German cerca l’essere umano nella sua natura più animale, più violenta, più carnale, bassa e triviale. In un certo senso l’essere umano non era mai stato raccontato cinematograficamente in questo modo. Immerso nel fango, nelle feci, nel suo piscio cerca di trovare le risposte all’oblio della mente, al vuoto culturale e persino alla mancanza di un Dio al quale Rumata alla fine si sostituirà, con grande dolore personale.

Come spesso accade nella letteratura russa, il concetto di dio non è visto in chiave teologica, ma sociologica. Qui, come altrove, ci si interpella sul ruolo di dio, sul suo bisogno sociale e sul suo tipo di natura. Un dio che non si preoccupa di lavarci e perdonarci. La sua pioggia incessante attraversa tutto il film, ma non pulisce i protagonisti, immersi fisicamente in un perenne fango, se possibile li sporca ulteriormente. Pioggia come male dell’umanità, che ovviamente non può lavare nessuno.

In questa chiave l’opera andrebbe letta anche come film-tributo al Rinascimento, senza al quale sguazzeremmo ancora nel fango e nel sangue dei trucidati in piazza.

Lasciate stare quelli che tirano fuori Pasolini; che rimanda a Salò. Qui il significato sociale e politico è completamente diverso e a livello visivo è raccontato in un modo completamente diverso. Per non parlare poi del coinvolgimento emotivo. È più simile a un monologo di 3 ore di Carmelo Bene. Ecco è esattamente questo, trasposto su un’altra arte. Un monologo di Bene sul potere, sull’essere Dio (e non su Dio) e sulla fanghiglia merdosa che riveste l’umanità.

Non ha un capo ne una coda, ma ogni frase o inquadratura ti può illuminare sulla natura umana.

 

Infine, prendiamo il film per quel che è. Un capolavoro ..punto uno. Ma un capolavoro decisamente, indiscutibilmente, troppo pretenzioso ..punto 2. Un film postumo, che non a caso non è stato completato, e che forse non lo sarebbe stato mai. Come la storia dell’uomo. Perchè “è difficile essere un uomo“, ma è ancora più difficile essere un dio. Come questo film, però, vorrebbe essere.

 

ATTENZIONE: Film totalmente sconsigliato a chi non è un cinefilo e a chi è cinofilo.

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http://youtu.be/1KtqwQLGkao

 

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