Effimera Live: Paolo Benvegnù [Live Report 08/2020]

Nelle canzoni di Benvegnù ogni parola razionale sembra latitare di fronte alle cose invisibili e radicalmente essenziali: un'immaginario magico che si connette perfettamente ancora una volta con l'atmosfera "effimera" di questo meraviglioso Festival romano di periferia

Rammendo, come fili su un telaio vergine, alcuni versi di Pavese mentre percorro l’ultimo tratto di strada che mi porta al Fusolab. Ed è così che con ago e filo invisibili cucio un «Sei di sangue e di terra / come gli altri» ad un «Sei terra / che dolora e che tace. / Hai sussulti e stanchezze, / hai parole – cammini / in attesa». Sono versi vecchi, di settanta e più anni fa, ma suonano sempre incredibilmente freschi: sono come una nuova innocenza che fiorisce senza freni ad ogni passo di tempo, ad ogni decadere e rinnovarsi di stagione; sono un ticchettio sicuro che, come un metronomo, da’ le diverse oscillazioni tra ciò che vive e ciò che muore, tra ciò che rimane nell’attesa di un lampo di luce e ciò che precipita nel gorgo più profondo dell’oscurità.
Entrando nell’ormai familiare cortile del Fusolab mi accoglie come sempre la calorosità dei ragazzi della Fucina Alessandrina, del Poppyficio e di Radio Rebel, coi quali si è creata una sinergia unica nel suo genere e per cui noi di Uki siamo fieri di contribuire. Anche stavolta sono in netto anticipo e, tra una chiacchiera e l’altra, riesco anche ad ascoltare il sound check dell’artista ospite di questa serata di Effimera: Paolo Benvegnù. Sin da questi primi momenti si ha la sensazione che ci sarà un’atmosfera decisamente intima, una connessione profonda nella quale parole e musica scaveranno la nostra carne fino ad accarezzare l’anima. Terminato il check chiedo a Paolo se possiamo farci una chiacchierata e lui accetta di buon grado: questa volta non si tratta della solita intervista, ma riusciamo a instaurare un dialogo molto denso e fuori dall’ordinario. L’impressione che ho, parlando, è quella di essere in una sacca di purezza fuori da ogni confine di spazio e di tempo, un fluire ininterrotto all’interno del quale due anime si conoscono e si riconoscono. Potete leggere l’intervista qui..

Nel frattempo il cortile del Fusolab ha iniziato lentamente a riempirsi: le luci si fanno più soffuse e spetta al gruppo di apertura introdurci ad una serata che si promette emotivamente intensa. I Senna – rappresentati per questa occasione da Carlo, voce della band – disegnano sin da subito le coordinate entro cui viaggerà il tono della serata, delle coordinate fatte di intimismo, di accensioni liriche e di melodie delicate che hanno il coraggio di mettere in scena i piani emotivi scaturiti dalla fragilità, dalla perdita, dalla sensazione di sentirsi fuori posto mentre intorno è tutto rumore. Le canzoni presentate hanno la sinuosità delle onde del mare (e non sembra un caso se il loro lavoro d’esordio prende il nome di “Sottomarini“, come a voler evidenziare la volontà di scandagliare ciò che di più profondo è nascosto negli oceani delle nostre profondità), il sapore di una carezza promessa, a lungo trattenuta e poi liberata nel cuore della notte, così come evoca suggestivamente il brano “Giulia“, cantato quasi a cappella da tutti e tre i membri della band. Carlo, Simone e Valerio scendono da palco e si fanno più vicini al pubblico: le loro voci diventano un abbraccio intimo, un sussurro che arriva dritto al cuore.

Dopo il cambio palco, con un suggestivo gesto di circolarità Benvegnù inizia allo stesso modo il suo concerto: l’assenza di microfono e il timbro brillante della chitarra acustica ci introducono (attraverso la cover del brano “Oh my love” dei Sophia) nel cuore della tela bianca che il musicista si appresterà a dipingere con delicatezza e bramosia, utilizzando una tavolozza che spazia dal bianco al nero, dal rosso sangue all’azzurro limpido di un cielo estivo o di primo inverno. La voce nuda di Benvegnù – accompagnato, in questa serata da Gabriele Berioli – ci introduce nel cuore dell’invisibile che si fa, nota dopo nota, sempre più materico e plastico. Dal suono acustico si passa poi a quello elettrico e l’atmosfera si fa più dilatata: i suoni creano un tetragono ai cui angoli si aggrumano musica, armonia, melodia, voce; è una figura geometrica pienamente avvolgente, un perimetro che nel giro di pochi minuti ci fa sentire intimamente connessi, come se ognuno di noi, ascoltando, riuscisse nello stesso tempo a dare qualcosa di sé. In questo piccolo-grande miracolo la voce di Benvegnù lambisce i confini del sacro, la phoné diventa materia incarnata e ci conduce per mano attraverso i sentieri dell’innocenza, della dolcezza, della ricerca di un’essenzialità primigenia da contrapporre agli automatismi soggioganti cui siamo costantemente sottoposti.
Ogni parola, perciò, si libera dalle corazze incrostate del significante per diventare puro significato e il suono forgia, sotto gli occhi incantati della luna, il senso impastando la materia grezza del silenzio. Più che di un concerto, sembra di essere tra i partecipanti di un rituale alchemico nel quale la “nigredo” del piombo si trasmuta nell’”albedo” dell’oro. In questa atmosfera che tocca così profondamente le corde dell’anima, ogni parola razionale sembra latitare di fronte alle cose invisibili e radicalmente essenziali: tutto accade, e si lascia che sia quest’accadere stesso a parlare. Si passa, tra le armonie intrecciate dalle due chitarre sul tessuto melodioso della voce, da un hic et nunc ad un ovunque e sempre. È un gesto, quello che ci porta oltre i confini della contingenza, di assoluta e verginale libertà; è un gesto che ci insegna, senza nessun didascalismo o retorica, lo stupore.

Nell’intimità della notte, Benvegnù ci prende per mano e ci accompagna tra le pieghe dei suoi brani, alcuni tratti da precedenti lavori, altri dal suo ultimo “Dell’odio dell’innocenza“: la successione delle canzoni crea un suggestivo moto perpetuo nel quale è piacevole immergersi, anche perché riesce a diventare una sorta di specchio che riflette ogni singola intimità. Si passa da brani come “Il nemico” a “Pietre“, da “Il mare verticale” a “Infinito 3“, da “Love is talking” a “La schiena“, da “Nelle stelle” a “Avanzate, ascoltate“, vera e propria canzone-manifesto che fa da sfondo al nostro camminare insieme verso una purezza che diventa sempre più difficile raccontare con le parole. In questo stato di sospensione quasi attonita, la voce di Benvegnù e il buio del cortile ci stringono in un abbraccio che lascia quasi senza fiato, un abbraccio che permette di distruggere le scorie del pensiero costruendo, poi, il fiorire di una nuova forma interiore. Il concerto si chiude con il consueto bis, e Benvegnù ci regala due brani che, in modo diverso, ci proiettano nel passato: “Simmetrie“, tratto dal repertorio degli Scisma, e un’intensissima “Hurt” di Johnny Cash, attraverso la quale il musicista mette pienamente a nudo la sua interiorità.

Si riaccendono le luci sul cortile del Fusolab e lentamente le persone cominciano a defluire: c’è chi ne approfitta per consumare l’ultimo drink, chi si stringe intorno a Paolo cercando una timida quanto sincera stretta di mano, chi rimane ancora trasognato lasciando che le parole scavino ancora a fondo nella sua anima. Nel mio angolo, mi lascio avvolgere da piccole spire di fumo, e immagino l’intera esistenza come un muro che si riempie progressivamente di colori e segni, talvolta tracciati da noi, spesso da altri. Poi penso a queste situazioni e realizzo che sono come delle crepe su quello stesso muro, delle crepe benefiche dalle quali sgorgano parole intense di poesie. Ed è proprio grazie a quelle crepe che il muro comincia pian piano a fiorire, come se fosse anch’esso una particolare forma di mare verticale. Do un ultimo sguardo alla luna, ripongo i miei pensieri nelle tasche e mi appresto a svoltare nuovamente l’angolo che mi fa lasciare il Fusolab alle spalle: anche stasera è accaduto qualcosa di magico, qualcosa che ad ogni passo rende più viva e più grande l’anima.

Mario Cianfoni

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