Effimera Live: Edda [Live Report 08/2020]

L'ex frontman dei Ritmo Tribale ha messo in gioco tutto il suo intimismo, fino al suo caustico mondo fatto di materia e spirito, di desiderio e frustrazione, il Fusolab, Effimera e tutta la bellezza che gli gira intorno hanno fatto il resto: una serata magica!

«Edda come vorrei, Edda come vorrei, perché tutto questo volere non diventa energia e ci spazza via?». È inevitabile che stasera mi suoni in testa questo ritornello mentre mi avvio verso il cortile del Fusolab e il fatto che suoni proprio quello e non altri sarà forse un cliché o forse qualcosa di più profondo. Penso agli anni ’90, al fermento che hanno creato in quella che veniva chiamata “scena alternativa”: c’erano idee, c’era voglia di dire, c’era spontaneità, ma anche la voglia di distruggere qualcosa, la necessità di esprimere una rabbia latente dopo la narcosi dei rampanti anni ’80. C’era un volere e questo, forse, mi dà la differenza con l’oggi.
Cerco, però, di diradare questi pensieri che mi porterebbero inevitabilmente altrove, anche perché entrando nel cortile del Fusolab posso essere sicuro di immergermi in un contesto che di quegli anni (come dei decenni successivi) ha conservato lo spirito più vivace e propositivo. Ed è uno spirito che ormai riconosco sempre più nei volti e nelle parole dei ragazzi del Fusolab stesso, della Fucina Alessandrina, del Poppyficio, di Radio Rebel, uno spirito che noi di Uki siamo stati chiamati a raccontarvi quest’estate.
L’ospite di questa serata di Effimera è uno che, musicalmente parlando, ha forgiato la tempra del primo lustro degli anni ’90: Edda. Inutile ripetere che senza il suo cantato e la sua attitudine non sarebbero mai nati determinati gruppi, o quantomeno questi non avrebbero trasmesso una certa immagine che ad oggi si prende come riferimento. Ma l’Edda di questa sera sembra volerci suggerire qualcos’altro e ci si accorge subito di questa cosa già guardando soltanto il suo set up: nessun altro musicista sul palco, nessuna catena di effetti, nessun drink ma solo acqua naturale. Sul palco dovrà esserci Edda, la sua voce e la sua chitarra pulita. È un dettaglio, questo, che credo non sia sfuggito neanche agli altri seduti sugli spalti e sui tavoli del Fusolab. Si ha la sensazione che debba accadere qualcosa di altamente comunicativo e intimo, un mettersi a nudo che non è soltanto confessione, ma principalmente condivisione: è uno spogliarsi reciproco, un porsi come essenze che vadano al di là delle stratificazioni e dalle pose da mantenere.
Mi rendo conto di questo già a partire dai primi passi di Edda sul palco: chiede alla fonia di lasciare ancora per un po’ la canzone che si sarebbe dovuta interrompere al suo ingresso (“Balla balla ballerino” di Dalla); ma è travolto dalla melodia, ci invita a cantarla insieme a lui e ricalca con la chitarra i fill che suonano in sottofondo. È un ingresso che ci dà la misura di che cosa possa significare per Edda la musica, di che cosa – forse – significa adesso per lui: un atto di leggerezza, un movimento delicato e liberatorio, un conseguimento di armonia.

Dopo questo ingresso decisamente fuori dall’ordinario, inizia il concerto: “Io e te” apre la scaletta e la voce di Edda ci accompagna sin da subito nei suoi sali e scendi dolci e ruvidi allo stesso tempo, nel suo mondo fatto di materia e spirito, di violenza e tenerezza, di desiderio e frustrazione. Ma il racconto di vita non si ferma soltanto tra gli incastri delle note e delle melodie: Edda, tra un brano e l’altro, mette letteralmente a nudo il suo cuore, ma lo fa senza retorica o senza nessun senso programmatico. Sin dalle prime note Edda va “fino in fondo”, come canta con “Invisibile“, un classico ripescato dal repertorio dei Ritmo Tribale e qui presentato nella sua nudità più essenziale.
Ed è la stessa nudità che anima “Spaziale“: la delicatezza del timbro clean della chitarra e una voce dal taglio ruvidamente etereo ci portano direttamente in un’altra dimensione, in due corpi che si cercano a pochi passi dal sonno, in due anime che si salvano a vicenda dagli artigli di qualcun’altro che vorrebbe solo uccidere. Edda continua ancora ad accarezzare i corpi e i desideri che proviamo, le voglie più veementi ma anche la tenerezza: le geografie della carne e del sentimento vengono squadernate sugli andirivieni di “Benedicimi” e qualcuno, nella penombra delle luci soffuse, sembra voler stringere più forte una mano o far esplodere una carezza come lingua che lecca il cuore.
Edda si lascia guidare dalla spontaneità, la stessa che gli fa interrompere l’intro di “Innamorato” per chiedere ad un tizio poco vicino (dopo aver raccontato la sua esperienza di ritorno dall’India e del padre che lo voleva a tutti i costi progettista) dove ha fatto l’università e cosa ha studiato, la stessa spontaneità che lo fa ripartire se dimentica la progressione di un accordo o di un raccordo tra una frase e l’altra della canzone. È un modo per sentirsi tutt’uno col pubblico, un modo per ricercarne la complicità, come quando si suona a casa di amici – o su un prato – nel bel mezzo di una festa.
L’intimismo della prima parte prende adesso una piega decisamente più materica con pezzi come “Signora“, “Orazio e Ovidi“o, “Abat-jour” o “Stellina“. Amore e violenza, rassegnazione e voglia di riscatto, turbamento e leggerezza: è questo lo sfondo entro cui si muovono i marosi di Edda, anche se si percepisce uno stato di assolta causticità. Nonostante la bruciatura che comportano questi stati d’animo, Edda riesce a trasmettere un’ariosità che era propria di certe vecchie canzoni di musica leggera (e, tra un vocalizzo e l’altro, sembra che quel panorama di inizio anni ’60 faccia capolino, come ci dice chiaramente anche l’accenno a cappella de “La partita di pallone” di Rita Pavone).
L’esibizione, perciò, diventa un conglomerato di sensazioni, un dono, uno scambio catartico che mette in connessione la sua e le nostre esperienze: tra le due parti del palco si è creata – sin dal primo momento – una calorosità profonda e, se avesse potuto, tutto fa presupporre che avrebbe preferito suonare in mezzo a noi, stretto in un abbraccio reciproco. “Italia gay“, “Tu e le rose” e “Suprema” chiudono un concerto smagliante, un concerto che rimarrà sicuramente sedimentato e agirà come effetto di lungo rilascio.

Mentre il cortile del Fusolab si svuota lentamente, ordino il mio solito drink di fine serata e, come un rimando d’eco, mi torna in mente ancora quel ritornello che aveva accompagnato il mio ingresso qui: «Edda come vorrei, Edda come vorrei, perché tutto questo volere non diventa energia e ci spazza via?». Ecco, mi rendo conto che il volere, anche se ha seguito tortuosità e difficoltà pesanti – come ci racconta la storia stessa di Edda – è diventato davvero energia. Ma è un’energia che non si dissipa perché viene canalizzata da e in altre energie. Il volere diventa sinergia: Edda ha messo del suo, noi del nostro; il Fusolab, Effimera e tutta la bellezza che gli gira intorno hanno fatto il resto.

Mario Cianfoni

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4 Comments

  • Vi voglio bene a tutti! Per questo bellissimo festival, per aver portato Edda, per poi averne parlato in modo così suggestivo…
    Vi voglio bene, eroi!!! :)))

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