De Infinito

Per lo spazio, l’universo tutto mi comprende e inghiotte come un punto, per il pensiero io lo comprendo

.Lo spazio dalle dimensioni illimitate, o il tempo senza confini”. Da non confondere con l’eternità, di cui mi sono già occupato, la definizione di infinito si identifica nella frase d’esordio. Certamente, occorre gettare un’occhiata più profonda, per cogliere il significato che l’uomo ha attribuito al concetto di infinito nel corso dei secoli.

 

Nella filosofia antica lo si rintraccia in Platone, che lo identificava in ciò che è privo di numero o di misura; per Aristotele l’infinito è ciò che per natura non può essere percorso. Più vicino a noi il padre del neoplatonismo, Plotino, gli attribuiva teologicamente il carattere di inesauribilità.

Nell’età moderna con Cartesio prima e J. Locke poi, l’infinito è appannaggio di Dio. Solo a Dio e, pertanto, nell’alveo della trascendenza, può sussistere l’attributo dell’infinità. Ciò che non ha avuto inizio e non avrà una fine.

Occorre aggiungere che nella filosofia moderna il concetto dell’infinito diventa illimitatezza della potenza con Fichte. Nel ’700 Immanuel Kant, uno dei più grandi filosofi mai esistiti, parlò dell’ infinito nella sua opera maggiore “La critica della ragion pura“: «Il vero concetto dell’infinità è che la sintesi successiva dell’unità nella misurazione di un quantum non può mai essere compiuta».

La forza dell’esistenza, è il significato che Hegel attribuì all’infinito. Tutta la filosofia romantica dell’800 ha fatto di questo concetto la giustificazione della realtà in quanto tale. Il concetto di infinito è intrinseco all’Esistenzialismo primigenio e non solo, nei Pensieri di B. Pascal è presente come desiderio di Dio, come anelito al trascendente. Con Kierkegaard, in pieno ’800, l’infinito coincide con l’individuo: non vi è nulla di più difficilmente misurabile che le profondità dell’individuo nel suo rapporto con l’esistenza. L’infinità di Dio per i credenti può essere percepita mediante la virtù teologale della fede, la quale ha il potere di dilatare l’esistenza oltre il sé. Il dono della fede porta l’uomo a desiderare quell’infinito che tutto comprende e abbraccia. Bramare l’infinito nella dimensione finita di tutto ciò che è mondano. Si può affermare che è la finitezza terrena ad aver generato, negli uomini di tutte le epoche, il desiderio inesausto di infinito.

 

Nella letteratura la tensione dell’uomo verso l’infinito si manifesta in tutta la sua grandezza. Sarebbe impossibile, in questa sede, citare tutte le opere letterarie e poetiche in cui è presente nelle sue varie forme. Pertanto ci limiteremo a scoprire insieme alcuni capolavori, quelli che hanno suggellato il desiderio ancestrale di cui stiamo parlando.

I dolori del giovane Werther“, grande opera preromantica di J.W. Goethe, il romanzo che annuncia il Romanticismo gronda di sentimento, emozione e commozione. L’amore inappagato di Werther per Lotte si tramuta in desiderio d’infinito. In questo senso, la sintesi più perfetta della materia del romanzo è quella offerta da Schiller nel saggio “Sulla poesia ingenua e sentimentale“: «Un’indole che abbraccia un ideale con sentimento ardente e fugge la realtà per conquistare un infinito privo di realtà, un’indole che ricerca incessantemente fuori di sé quanto distrugge incessantemente in sé, un’indole per cui solo i propri sogni sono il reale e le proprie esperienze sempre e soltanto limiti, che infine nel suo stesso essere scorge unicamente un limite e supera anche questo, come è logico, per penetrare nella realtà autentica…». L’anelito preromantico verso l’infinito svela qui il suo volto distruttivo: dinanzi a esso i valori dell’esistenza impallidiscono assumendo la consistenza spettrale dei “sogni”, mostrando la patetica vanità delle “figure variopinte” con cui il recluso decora i muri della sua prigione.

Altra opera fondamentale, pilastro dell’infinito in letteratura, è l’ “Anna Karenina” di Lev Tolstoj. Crogiuolo dei grandi temi tolstojani la vicenda tragica di Anna è percorsa da un filo che lega la sua passione alla grandezza dell’amore. Una passione che si scaglia contro le regole della società, le convenzioni e il falso perbenismo ottocentesco. Nel destino di morte che accomuna Anna e Levin risiede l’imperioso bisogno di indagare il passaggio estremo, il momento cruciale a cui nessuno può sottrarsi. E in quella indagine conoscitiva vi è la tensione verso l’infinito, verso qualcosa che possa trascendere l’infausto destino riservato loro dalla dimensione terrena. Il tradimento compiuto da Anna è l’anticamera della sua morte. Può essere stato anche un soprassalto di libertà, rottura, rinnovamento e rinascita. Il tentativo di abbracciare qualcosa di superiore, al di là della carne. Il pregiudizio della società le nega il desiderio di felicità, costringendola al suicidio. E che cos’è la felicità se non un frammento di infinito? Le 137 opere che compongono la “Commedia umana” di Honoré de Balzac, che cosa rappresentano se non una pertinace tensione a svelare l’infinito presente nella vita?

C’è una poesia che reca come titolo proprio “L’infinito“, è stata scritta da una grande anima. L’anima di cui parliamo era imprigionata in un corpo gracile. Quest’uomo nacque a Recanati e si chiamava Giacomo Leopardi. “L’infinito” è il XII canto della raccolta, in esso sono contenuti significati che travalicano ciò che si percepisce con i sensi. Quello di Leopardi è un infinito che non si vede, ma si sente : l’ermo colle, la siepe, gli interminati spazi e i sovrumani silenzi, non vivono che nella sua interiorità. Per vederli dobbiamo aprire gli occhi dell’anima, dobbiamo sentirli con il cuore, assaporarli con la mente. Non dobbiamo cercare il mare in cui il suo pensiero annega, semmai l’idea di tutto questo. Leopardi ci indica la strada per abbracciare l’infinito, un percorso difficile perché immateriale. Occorre avere mezzi adeguati per percorrere strade che non vediamo, il coraggio di guardare dentro di noi. Nella produzione leopardiana “L’infinito” fa, come si dice, storia a sé. Ci sono le “Operette morali“, lo “Zibaldone“, i “Canti” e poi c’è “L’infinito” che brilla in tutto il suo profondo splendore.

 

L’ermetico Giuseppe Ungaretti ci ha regalato tanti capolavori, poesie entrate nel nostro bagaglio culturale, come tasselli di un mosaico. Un posto d’onore lo merita una lirica che si intitola “Mattina” e che fa al caso nostro, poiché recita : «M’illumino / d’immenso». Sono due versi composti da due sole parole. Fu scritta il 26 gennaio 1917, mentre Ungaretti era soldato sul fronte del Carso durante il Primo conflitto mondiale. Lirica breve ma potentissima, esprime il significato di un momento fulmineo, un istante di bellezza irripetibile. Un momento in cui, in mezzo alle atrocità della guerra, il finito e l’infinito si uniscono quasi in un unico elemento: non esiste più niente intorno, solo una grande luce che origina un momento di intuizione nel quale egli si mette in contatto con l’assoluto. Illuminazione dell’improvvisa consapevolezza del senso della vastità del cosmo. Il messaggio che vuol comunicare è la fusione di questi due elementi contrapposti: il singolo, ciò che è finito, si concilia con l’immenso, ritrovando nella luce il principio e la possibilità di tale fusione.

 

La natura è maestra di infinito. Osservando le montagne e soprattutto scalandole ci si accorge di quanto vulnerabile sia il nostro corpo e, viceversa, quanto siano maestose quelle vette. Mi hanno sempre affascinato poiché le ritengo in possesso di una dignità più antica di quella dell’uomo. Le montagne tendono verso l’alto, guardano il cielo, vogliono abbracciarlo, si inerpicano raggiungendo chilometri di altezza. Poi si fermano, fiere della loro grandezza. Si offrono a noi come veicolo per contemplare la bellezza, lassù l’infinito appare più vicino. Mi piace pensare che il loro lento formarsi e crescere, fatto di placche rocciose che si scontrano in ere geologiche, abbia come linfa vitale l’obiettivo di lambire e penetrare una realtà soprastante. Dimensione che potremmo definire in tanti modi, ma che, in questa sede, chiameremo l’infinito.

Giuseppe Cetorelli

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