“Cor Cordis”: la dualità dei cuori nel violino di Francesco Del Prete

Ultimo lavoro discografico del violinista e compositore salentino, tra jazz, ritmi mediterranei, contaminazioni di genere, sintetizzatori ed effetti elettronici

Ci fu un tempo in cui la parola “cuore” non evocava, nella mente, la rassicurante forma stilizzata di un petalo cremisi, per non meglio dire un culo rovesciato. Era una parola sanguigna, grassa del sapore caldo e appiccicoso di un organo muscolare che batteva il ritmo vitale su cui, per prima, è stata scandita la nostra umana concezione di tempo.
Cor cordis” è un disco strumentale di Francesco Del Prete, violinista.
Cor Cordis significa “Il cuore del cuore”, ed è un nome che marca da subito l’identità ferocemente duale di questo lavoro, nato, senza dubbio, sotto il segno di “Gemini”, della sua casa ambigua.
Abbiamo infatti due cuori, uno per ogni anima del disco: da un lato la natura morbida, stilizzata e rassicurante, che ci riconduce al retaggio classico che un violino, per sua stessa natura, porterà sempre con sé; dall’altro, all’opposto, ci si imbatte in improvvisi rovesci, così caldi e pulsanti da farci sentire vittime di un’imboscata.
Proprio quando viene voglia di abbandonarsi all’andamento fluido e delicato di un suono antico, si scopre che è solo un inganno! Perché – come in un vigliacco scherzo del prete – il compositore ti lascia sì, chiudere gli occhi, ma solo per poi colpirti alle spalle con una spregiudicata ritmica elettronica, spesso venata di un suono così acido da costringere chiunque a specchiarsi nella più cruda contingenza del quotidiano.
Scoprirsi sorpresi non ci deve sorprendere. È come trovarsi davanti un’acherontia, splendida farfalla con un teschio impresso sul dorso: ci attrae e inquieta al tempo stesso.
Francesco conosce il suo strumento, lo viviseziona. Ne rispetta il passato ma lo spinge a cercare i limiti delle sue possibilità: non lascia che le quattro corde siano “Lacci“, ne oltrepassa invece i confini percuotendo ogni singola parte del violino, accendendo suoni insperati da contaminare con l’effettistica elettrica contemporanea. Eppure non mancano melodie che, per concezione, si inseriscono sulla scia dei secoli andati. Si può ammiccare all’onomatopea, per esempio, opponendo agli antichi voli di calabroni un “alveare” intero, da far sciamare nella testa insieme al sax; o magari far emergere dalle sabbie del tempo voci antiche, impastate nella lirica o nel folklore popolare, come venissero da un’”attrice” in grado di sostenere ruoli contrapposti.
Due anime diverse di due diversi cuori, uno dentro l’altro, come una matrioska.
Forse per ricordarci, in tempi in cui ci schiera senza tentennamenti, in cui le certezze granitiche si gridano sui tetti, che la natura delle cose, e soprattutto la nostra, sarà sempre duplice e ambigua.
Forse per dirci che per quanto possiamo crederli forti – tanto da colpirli ripetutamente e pizzicarli senza pietà – non dobbiamo dimenticare mai che a volte anche i cuori hanno un cuore.

Matteo Mammucari

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