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In un orto preziosamente precario tra l’allucinante ombra e la minaccia di luce, riviveva una tremenda congettura [Racconto breve]

L’acqua scorreva clandestina sotto terra. Una vena d’acqua s’allargava, logorando piano piano ogni resistenza rocciosa. A trenta metri sotto il livello del suolo stagnava la sorgente. Ma i più pensavano allo zolfo. Le miniere erano articolate in una rete inestricabile di tunnel: i nidi di ragno erano di gran lunga più sicuri. Ci furono morti, ma vennero presto dimenticati. Quelle vite erano proiettate nelle parole di altri, spese in un alterco cominciato per gioco, in equilibrio tra l’alcol e il desiderio di ostentare una sapienza banale. In un orto preziosamente precario tra l’allucinate ombra e la minaccia di luce, riviveva una tremenda congettura: il mondo è mera attività della mente. La luce deambulava inventando ombre sui muri. E con superstizione l’ora s’arrampicava, capricciosa, agli istanti; piegava il tempo, che un solo enorme giorno era moltiplicato. Nei sogni cominciano le responsabilità dell’uomo. E Erminio correva su uno stretto e rovinato muro con energica magrezza. S’improvvisava uomo e con l’asprezza della voce imprecava Dio l’invisibile. Sotto il muro in sfacelo, dei cani color di luna sapevano che il loro obbligo immediato era abbaiare. Erminio era stato dichiarato muto: gridavo e non mi ritrovavo; sacrificava all’aria insondabile la propria voce. Avvertì la distanza e per coerenza cessò l’urlo in una eloquente soluzione delle labbra. Le labbra avevano trovato il confine tra silenzio e parole. Un idioma inaudito che Erminio esibiva, denunciò ai cani grintosi le password: dhcmrlchtdj. Le password dimenticate tracciano una fila di segni, prefigurano passati irrevocabili che sanno di azzardo. Erminio singhiozzava di una felicità quasi abietta: esisteva un solo muro, con un solo lato. Dopo aver percorso un giro si trovava dalla parte opposta; solo dopo averne percorsi due si trovava sul lato iniziale. Uno squillo del telefono sospese il silenzio irreale, iniettando piccole dosi di tensione. Poche decine di metri a destra lo spazio cedeva a rumorose parole, e pochi passi a sinistra c’era una villa. Un edificio che riunisce l’aborrito biancore di un sanatorio, la numerata divisibilità di un carcere e l’aspetto reale di una casa di riposo. Erminio si scoprì sopraffatto dagli squilli del telefono. In quel che lui ha improvvisato come sogno, non poteva sottrarsi ad un rigore logico: i sogni sono bolle di sapone, scoppiano sul più bello. Con i piedi per terra, seduto su una catasta di legne Erminio correggeva la fila di formiche.

«Avanti.. marsch!» poi aggiunse «Squadra.. alt, per fila sinist, sinist! Ma guarda.. posso fermarle ma non posso obbligarle a marciare come voglio io». I vecchi rivoluzionari vennero processati e fucilati con l’accusa di tradimento. Trotsky venne assassinato a Coyoacoon. Erminio schiacciava col pollice le formiche, a una a una. E gli squilli del telefono continuavano faticosamente e maldestramente. Insistente, come un incubo, pesava su Valentino il ricordo di una antica viltà. Per il loro valore estetico Valentino ammirava le idee religiose e filosofiche, anche per quel che racchiudano di meraviglioso. Chiuse gli occhi pallidi e dormì, non per stanchezza ma per determinazione della volontà. Camminava su di un sentiero intagliato nel verde vivo di bosco. Faceva a pezzi il silenzio con un sistema di suoni che andava dal ruggito al miagolio; poi dal mondo felino passò a quello volatile. Portava al collo uno specchio che consultava nei momenti di silenzio. Il lobo dell’orecchio sinistro, la punta del naso, le ciglia. Valentino si esaminava allo specchio passandosi le dita sul viso, scoprendosi cambiato. Una lieve contrazione dei muscoli facciali avanzava in maniera impercettibile, se non fosse stato per le mascelle. Le mascelle si facevano sempre più strette che il viso era ancora più magro e i suoi occhi chiari sempre più aperti. Valentino era il primo Homo Mediavale.

«Che cosa mi è successo?» pensò. Non era un sogno pensava. Il suo ritratto provava che si sbagliava. Una faccia esile che allude all’età prepuberale era davanti allo specchio. Un viso con il look del negativo fotografico: pelle scura e capelli schiariti. Non era un’abbronzatura fine piuttosto il segno visibile di una vita passata a guardare serie televisive. Valentino si guardava allo specchio e si mordeva la lingua come se la sua fosse una faccia tra le tante. E lo specchio dai tenui bagliori gli cadde di mano che il suo corpo snelliva sempre di più. Scricchiolava con piccole convulsioni fino a prendere le sembianze di un neonato di legno. Valentino si svegliò e gli sembrò che non potesse riposare più.

«Adesso lei torna in camera! Nelle sue condizioni non è consigliabile avere contatti con altre persone», urlò la caposala mentre seguiva un ospite che correva in mutande e senza scarpe. Mauro, trent’anni di neurolettici, aveva paura di due cose: gli specchi e la paternità; entrambi moltiplicano l’universo. Con una irresponsabile licenza dell’immaginazione, Mauro sfidava le dimensioni della realtà con una specie di gara di infamie. «Presto, presto, presto, presto..» replicava, e contava le dita col pollice, facendosi beffe della caposala. Correva ragionando a voce alta: «So di un uomo di Colobraro che per me non è meno di Gesù. Parlai con lui per solo un’ora, ma durante un’ora fu Gesù».

Poi s’inchiodò alla ringhiera, per seguire un’orgiastica diavoleria. Ogni oggetto di cui ignorava lo scopo, acquistava un fascino paradossale. Rosoni e volute davano un colpo di luce ad ogni schema decorativo, fornendo un contrasto allo scorbutico ferro battuto. Le mode cambiano ma il ferro battuto è sempre di moda.

La poesia del duro metallo riesce a trarre oggetti utili alla vita di tutti, a riaffermare ad una temperatura di 650°-900°C, ed è la calda giusta per la fucinatura, una protezione non immediatamente indispensabile, almeno in apparenza. L’effetto protezione lo si può ottenere in modi più semplici e meno costosi, ma i rosoni costituiscono la più bella risposta dell’uomo al bisogno di proteggersi e circondarsi di bellezza. Quella ringhiera, come se fosse germinata dal terreno in modo spontaneo, riproduceva l’imprevedibilità, nel ferro, della natura; una danza silenziosa della realtà come le movenze feline della tartaruga, quando si ritrae nella testuggine. Mauro annullava il processo di realtà in corso, brevettava un divertimento fuori da ogni norma. Il suo bacino lottava in una serie ossessionate di Denk!

«Namo, daje», e «Me so’ ingrifato» e «Che, nun lo vedi?» strepitava in un improvvisato romano, mentre la caposala palpitava di sdegno, con le guance rossicce. Mauro con le gambe larghe e le mani sul petto, premeva con decisione l’inguine contro il rosone della ringhiera; ci dava sotto, tutto sudato e bianco in faccia per lo sforzo. «Liberando la donna, in realtà, liberiamo i nostri ultimi schiavi» fece attento Mauro, con una curiosità per ciò che non cresceva nello slip, «Non erano schiave nei campi ma schiave in casa» si raschiò la gola e guardò impunemente dentro lo slip. Non aveva provato piacere ma aveva colmato il bisogno psicologico.

Chi abitava al di là della ringhiera aveva comportamenti mostruosamente simpatici. «Perché hai i guanti?» disse Cosimo, seduto con pura noia a tavolino. «Non so neppure se ho ancora le dita» rispose Simone . «Qualcuno, non si sa bene chi, ci ha assegnato questi volti» fece Cosimo svuotando il bicchiere, «Solo due». Aveva occhi sfavillanti, in contrasto con il suo modo puerile, e una faccia invecchiata male.

Mentre che gli occhi assediati dal carbone ronzavano, Cosimo riprese: «Certamente, sei stato sepolto nel centro di qualche piramide o ti hanno affibbiato cinque anni per possesso di stupefacenti. Be’, amico mio, sei un cadavere». Simone secco rispose: «Niente di antico sotto il sole». I due sempre intenti in una certa matematica spavalderia nel parlare e in una graziosa scioltezza dei gesti, restavano senza nulla da fare. Erano lì, alle loro spalle l’orto s’apriva per un terzo alla luce. La parete di cemento veniva attaccata dalla vegetazione, e la proiezione dell’ombra disegnava un alfabeto di segni, che funzionano come un quadrante di un orologio.

 

di Silvio Spiniello

 

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