Céline e il suo “Voyage au bout de la nuit”

Saggio sullo straordinario romanziere francese dallo stile geniale a dai burrascosi trascorsi ideologici e politici

…La vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte

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Louis Ferdinand Céline rientra nel novero dei più grandi scrittori del XX secolo. I grandi scrittori sono quelli che cambiano il volto della letteratura, lo riplasmano, lo correggono e creano uno stile originale. Un nuovo modo di scrivere, di dare nomi alle cose, alle sensazioni, una scrittura in grado di suscitare emozioni servendosi di mezzi mai utilizzati prima.

Come capita sovente in questi casi, scrivere dopo Céline è stato più difficile per chiunque. Chi l’avesse incontrato negli anni cinquanta a Meudon, presso Parigi, l’avrebbe scambiato per un sessantenne invecchiato di colpo, in una sola notte. Il suo aspetto denunciava una certa incuria della propria persona, anche se tentava sempre di darsi un tono. Vestito di panni modesti si mostrava raramente alle telecamere, non frequentava salotti letterari, era sufficientemente schivo e altrettanto geniale. La sua vita fu una vera Odissea, un romanzo non scritto a cui provvederà presto. Nato nel 1894 a Courbevoie, si arruolò volontario nell’esercito francese e nel 1914 si ritrovò a combattere nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Questo evento segnerà per sempre la sua vita, inducendolo ad un ripensamento sulla natura dell’uomo. Nel ‘700 un ginevrino di lingua francese, J.J Rousseau, asseriva che «l’uomo nasce buono ed è la società che lo degenera». Mai come in quelle notti di guerra, ventenne, deve avere dato ragione al vecchio Rousseau.

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Louis Ferdinand era un uomo intelligente e sensibilissimo, riuscì a tradurre le fragilità generate da una sensibilità esasperata in profondità artistiche. La visione che ha della realtà umana è nichilista e cupa. L’esplorazione dei recessi dell’anima, oppressa delle miserie quotidiane, è il monito di una curiosità volta alla comprensione della sofferenza. Poichè per Céline nelle latebre dell’uomo abita la consapevolezza che l’esistenza è dolore, angoscia e tristezza. Solo poche folgori di bellezza l’attraversano, con tutta la nostalgia di una fugace apparizione. La grande consapevolezza di Céline è quella di un uomo che ha calpestato il sangue dei commilitoni sulle Ardenne, osservato lo sfruttamento dei coloni francesi in Africa e l’impotenza della medicina dinanzi all’ineluttabilità della morte. Per Céline la morte è la nullificazione dell’essere, e tutti i paradisi a cui abbiamo imparato a credere sono solo illusioni e sogni. Si evoca il rimedio di un’altra vita per esorcizzare il pericolo estremo della morte e del nulla che ci attende. Il sogno, la filosofia, l’arte e le religioni sono un rifugio dorato e tranquillizzante in cui possiamo trovare riparo, per allontanare lo spettro dello scomparire definitivo e irrimediabile che tanto atterrisce l’uomo.

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Nel suo primo romanzo, “Viaggio al termine della notte“, troviamo sintetizzato tutto questo in una sola frase: «…La vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte». Il romanzo si presenta come una testimonianza autobiografica, pubblicato nel 1932 viene considerato il suo capolavoro. E’ il libro dello sradicamento, della rivolta, del sarcasmo, dell’irrisione violenta e acuminata. Il clamore e lo scandalo che lo accolsero, con l’aura di “maledettismo” presto sorta a circonfondere tanto il protagonista quanto l’autore, sono riconducibili alla disturbante carica di verità che attraversa per intero il viaggio, e che mette impietosamente a nudo le miserie dell’individuo insieme a quelle ben più gravi e profonde della società in cui si muove. Il medico Ferdinand Bardamu, alter ego di Céline, si muove come un vagabondo dagli scenari della Prima Guerra Mondiale all’Africa coloniale, dall’America del fordismo alla povera suburra parigina, disegnando un quadro complessivo in cui qualsiasi valore morale ha perso tenuta, e in cui drammaticamente più labile e vaga si è fatta la distinzione tra bene e male: al duro sfruttamento dell’uomo sull’uomo nelle colonie francesi corrisponde quello del capitalismo americano, alla povertà dilagante degli uni fa eco quella degli altri, in un universo in cui la legge della sopravvivenza impone scelte spesso disgustose, talora aberranti. Eppure da questo tragico materiale Céline sa estrarre frequente situazioni di esilarante comicità, in una mescolanza di dolore e riso superbamente sorretta da una scrittura assolutamente originale: una scrittura plasmata sul parlato, scandita da un ritmo incalzante e sincopato, in cui i termini gergali, il turpiloquio, l’elementarità e la distorsione sintattica sanno continuamente aprirsi a sprazzi di sublime ogni volta del tutto stupefacenti. Un vero e proprio “miracolo” espressivo, marchio inconfondibile della grandissima letteratura.

 

La sua produzione non si fermò con il Voyage. Nel 1936 pubblicò “Morte a Credito“, nel ’49 “Casse-pipe“, nel ’54 “Normance“, del 1955 è “Colloqui con il professor Y“, “Da un castello all’altro” (1957), “Nord” (1960). Postumi uscirono “Il ponte di Londra” (1964) e “Rigodon” (1969). Intensa fu anche la sua attività pamphlettistica, in direzione antisovietica (“Mea Culpa“, 1936) e antisemita (“Bagatelle per un Massacro“, 1937; “Le belle Bandiere“, 1941). Da ricordare anche i saggi riuniti nel volume “Il dottor Semmelweis” (1924). In tempi passati si è tanto discusso sulla vicinanza di Céline alle tesi antisemite, l’adesione dello scrittore agli argomenti che ritenevano quella ebraica una “razza” da eliminare gli causò guai seri nel dopoguerra. Fu arrestato e condannato in contumacia, poiché nel frattempo riparò in Danimarca, dove rimase in esilio dal 1945 al 1951. In sostanza, il suo antisemitismo, era motivato dalla convinzione che gli ebrei occupavano abusivamente posizioni di potere nei quadri amministrativi e nell’alta finanza. Impedendo, in questo modo, l’ascesa professionale degli “ariani”.

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Louis Ferdinand Céline morì a causa di una emorragia cerebrale, nella Parigi del 1961, senza più illusioni e sogni da realizzare. Se volessimo trovare l’equivalente italiano di Céline, penseremmo subito a C. E. Gadda (rimando al mio saggio “Funzione Gadda“). Appartengono alla stessa generazione, soldati nella Grande Guerra, letterariamente furono innovatori dello stile e della lingua.

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Vorrei concludere con un passo molto bello del Voyage. Narra il momento di un addio, quello tra Bardamu e Molly, una prostituta. Si amarono molto, seppure a modo loro. Bardamu vuole tornare in Europa, giacché in America tranne Molly non ha trovato nient’altro. È la storia di un dolcissimo addio:

«Sei molto gentile, Ferdinand, mi diceva lei, e so che fai degli sforzi per non diventare cattivo come gli altri, soltanto, non so se sia bene quello che in fondo tu desideri…Pensaci bene! Bisognerà che ti trovi da mangiare quando sarai tornato laggiù, Ferdinand…E altrove non potrai più passeggiare come qui a fantasticare per notti e notti…Come ti piace tanto fare…Mentre io lavoro…Ci hai pensato Ferdinand?”. In un certo senso, aveva ragione, ma a ciascuno il suo. Avevo paura di ferirla. Soprattutto perché lei si feriva facilmente. “Ti assicuro che ti amo, Molly, e ti amerò sempre…come posso…a modo mio».
«Tu sei molto affettuoso, Ferdinand, mi rassicurava lei, non piangere per me… Tu sei come malato della voglia di saperne sempre di più… Ecco tutto… Insomma, devi fare la tua strada… Di là, tutto solo… È il viaggiatore solitario quello che va più lontano… Partirai presto allora?
– Sì vado a finire gli studi in Francia, e poi tornerò, l’assicuravo io con faccia di bronzo.
– No, Ferdinand, non tornerai più… E poi non sarò nemmeno più qui…”. Non era stupida.
Arrivò il momento della partenza. Andammo una sera verso la stazione un po’ prima dell’ora in cui tornava nella casa… io e Molly.
“Ecco che sei già lontano, Ferdinand. Tu fai, vero, Ferdinand, esattamente quel che hai voglia di fare! Ecco quel che importa… È solo questo che conta…”. Il treno è entrato in stazione. Non ero più molto sicuro della mia avventura quando ho visto la macchina. L’ho abbracciata Molly con tutto il coraggio che avevo ancora nella carcassa. Avevo una gran pena, autentica, una volta tanto, per il mondo intero, per me, per lei, per tutti gli uomini. È forse questo che si cerca nella vita, nient’altro che questo, la più gran pena possibile per diventare se stessi prima di morire.
Sono passati anni degli anni da quella partenza e poi ancora anni…Ho scritto spesso a Detroit e poi altrove a tutti gli indirizzi che mi ricordavo e dove potevano conoscerla, seguirla Molly. Non ho mai ricevuto risposta.
Il casotto è chiuso adesso. E’ tutto quello che ho potuto sapere. Buona, ammirevole Molly, vorrei se può ancora leggermi, da un posto che non conosco, che lei sapesse che non sono cambiato per lei, che l’amo ancora e sempre, a modo mio, che lei può venire qui quando vuole a dividere il mio pane e il mio destino furtivo. Se lei non è più bella, ebbene tanto peggio! Ci arrangeremo! Ho conservato tanto della sua bellezza in me, così viva, così calda che ne ho ancora per tutti e due e almeno per vent’anni ancora, il tempo di arrivare alla fine.
Per lasciarla mi ci è voluta proprio della follia, della specie più brutta e fredda. Comunque, ho difeso la mia anima fino ad oggi e se la morte, domani, venisse a prendermi, non sarei, ne sono certo, mai tanto freddo, cialtrone, volgare come gli altri, per quel tanto di gentilezza e di sogno che Molly mi ha regalato nel corso di qualche mese d’America».

 

Giuseppe Cetorelli

 

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