Casalingo

Avere una casa non significava essere a casa. L’ordine, la pulizia, facevano che lei appartenesse a me, non viceversa

Avevo messo su il caffè. Scrosciavano canzoni malconce da sentirsi meno soli, era un po’ che avevo imparato a lavare i piatti. Il grigio improbabile di giugno minacciava tempesta, il piano terra non era mai stato il mio piano e mi faceva sentire un po’ a terra.

Avevo le corde da cambiare e il sapone da stoviglie. Non brillavano come prometteva la pubblicità e io non brillavo come mi ero promesso. Ma guardavo la spugna con il lato ruvido che toglie lo sporco senza graffiare, insisteva nel dire che un po’ di incrostazioni le stavo staccando, pian piano. Schiuma dopo schiuma.

Anche i miei avambracci sembravano più lisci, tutto sommato. Merito del limone, diceva qualcuno. Ma io non ci credevo troppo; avevo cominciato a giocare più pesante: pulendo scopri che ci sono angoli difficili da raggiungere, è lì che si annida lo sporco più nero. Il piano era tentare quello che non mi aveva mai tentato, sporcarmi le mani per vedere se mi puliva le interiora, scrostarmi dalla mia pelle sconcia e dalle mie posizioni. Tre dosi di argento al giorno per salvarmi la pelle.

Il caffè si sputazzava fuori da solo, io mi ero perso nella fiamma del fornello. Niente più nidi di vespe giganti e pestilenziali a infestarmi la cappa, ora ero il re del gas. Come ho scacciato loro riuscirò a scacciare il ricordo di un desiderio di latte di soia e cereali preferiti da portare a letto a chi ormai non dormirà più a casa mia e che ha lasciato il suo spazzolino viola conficcato nel mio ventricolo. Butterò anche quello. Prima o poi.

Tanto la cosa veramente difficile era scoprire che non c’è un posto giusto per ogni cosa, non tutto ha lo scaffale o il cassetto a cui appartenere. A testimoniarlo erano le cartacce perenni sul tavolo, frasi, appunti, disegni… roba che non servirà mai a nulla ma che è parte di me, almeno quanto il sangue perso con una scatola di tonno o i batteri lanciati via in uno starnuto. Non c’erano molte alternative, o si scopriva dove mettere queste cartacce oppure andavano nella spazzatura. E valeva per tante altre cose.

Ma proprio come le tante altre cose, le cartacce erano ancora al loro posto che non era il loro, e io le guardavo moltiplicarsi e mi incartocciavo. Il loro posto era vacante quanto il mio, era un tavolo dove trascorrere e riflettere prima di scoprire cosa ti appartiene e a cosa si appartiene. Dalla mia parte avevo tanti prodotti, veleni delicati; qualcuno era buono per il legno, qualcuno per l’acciaio, qualcuno per il vetro. Le soluzioni erano tante, ma nessuna di quelle che cercavo aveva l’etichetta. Nella vita bisogna sperimentare.

La casalinghità mi insegnava tante cose. Ma quella che più mi si era conficcata nei polpastrelli era che avere una casa non significava essere a casa. L’ordine, la pulizia, facevano che lei appartenesse a me, non viceversa. Pensavo questo, mentre il grigio prorompeva nella bufera. Ma nonostante tutto, dentro di me sentivo che il mio temporale era forse quasi passato; per questo non importava più se la sabbia piovana mi avrebbe sporcato i vetri delle finestre. Tanto potevo pulirle, avrei addirittura potuto sostituirle, anche solo per capriccio. Ma chi vuole salvarsi deve concentrarsi sul panorama, perché quello non lo puoi cambiare. Al massimo puoi cambiare casa. E non ci sono spugne con il lato ruvido che non graffia che tengano, non ci sono detergenti che detergano, non ci sono fornelli che fornellino.

Avevo bevuto il caffè davanti alla pioggia sabbiosa di giugno, e sentivo che un po’ di chiarezza stava per arrivare. Nell’attesa di un divano abbastanza comodo, di un nuovo spazzolino, di cassetti riservati a chi non ero io, mi ero deciso a capire che non puoi nascondere tutta la polvere sotto il tappeto, perché il tappeto finisce, la polvere no.

di Matteo Mammucari

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