Arto Lindsay @Eutropia Festival (07/2014)

Il genio sperimentale di Lindasay incanta Roma.

Da Rio de Janeiro a New York, da una spiaggia di Bahia ad un quartiere hipster della grande mela. Non c’è niente di lineare nella musica di Arto Lindsay, niente di già sentito, di scontato. Si passa nello stesso momento da un’armonia tropicale e leggera, grazie a cui ci immaginiamo di bere un mojhito da accompagnare a un tramonto, ad una sequenza di distorsioni acide e anarcoidi che fanno pensare ad un bombardamento. Arto Lindsay ti spiazza, ti cattura, ti fa ballare ma lo fa sempre con il distacco tipico dell’intellettuale.

 

Per chi non ha mai sentito parlare di questo genio creativo, magro e con la voce sommessa, Arto Lindsay è un musicista statunitense trapiantato a soli tre anni in Brasile al seguito dei genitori missionari, la terra che all’interno dell’immenso campionario sonoro che coltiva nella sua mente l’ha fortemente influenzato. Diciamo pure che deve tanto al Brasile (influenzato musicalmente dal tropicalismo di Caetano Veloso e Gilberto Gil) ma che anche il Brasile deve tanto a lui, avendo dato nuova linfa alla Bossa Nova, reinterpretandola come solo un artista del suo calibro poteva fare.

Nella sua crescita musicale c’è però anche il ritorno in patria (anche se credo sia in Brasile che il musicista si senta più a casa) e soprattutto la fondazione di quella musica No Wawe, di cui è uno dei principali esponenti (nel 1978 la sua band, i DNA, viene lanciata da Brian Eno con una compilation dal titolo “No New York”), e senza la quale, si mormora, gruppi come i Sonic Youth non sarebbero mai esistiti. Successivamente, insieme ai fratelli Lurie, Steve Piccolo e Tony Fier, ha dato vita ai Lounge Lizards, gruppo col quale ha contribuito allo sviluppo del cosiddetto punk jazz.

Avanguardista newyorkese, tropicalista atipico e sperimentale, pioniere della controcultura, Arto Lindsay ha mescolato nella sua carriera ritmi, melodie ed espressioni verbali di numerose culture e generi e lo ha fatto in una forma provocatoria ed inimitabile. Il suo stile chitarristico rumoroso e atonale –altri elementi contraddittori che però riesce a far convivere mirabilmente– si innesta su una voce dolce e sussurrata, in questo molto brasiliana, rendendolo davvero un musicista unico e geniale.

 

Ieri sera, alla città dell’altra economia, nell’ex Mattatoio, si è esibito per buona parte in compagnia di Marc Ribot, per ricapitolare con un doppio cd, “Enciclopedia of Arto”, per metà antologico e per metà live, la parte solista della sua carriera. Il disco dal vivo comprende incisioni in solo, registrate in gran parte a Berlino al Berghain Club il 17 gennaio 2011.

Esperienza unica sentire dal vivo il modo con cui ha massacrato il funk pansessuale del Prince di “Erotic City” con la sua chitarra grattugiata che sembrava ululare al cielo in una notte d’estate. Sotto di lui, ad acclamarlo, un centinaio di licantropi danzatori che non avrebbero voluto smettesse di suonare per loro, almeno finché non si fosse fatto vivo il giorno. Tutti gli altri, compreso me, hanno preferito starlo ad ascoltare seduti su una sedia, birra e sigarette.

 

Le orecchie ancora mi fischiano, è vero, e ancora adesso non riesco a capire bene a che tipo di spettacolo ho assistito. Bossa Nova, Punk Jazz, sperimentale, No Wawe? Beh, è questo il punto: c’era tutto questo, esposto impeccabilmente con una sintesi artistica di grande livello, e la sensazione è quella di non aver compreso fino in fondo l’indiscutibile genio di un musicista che ha esplorato tutti, ma proprio tutti, i generi e le sonorità possibili. Devo ringraziare Arto, tuttavia, perché ieri in fondo ho compreso il significato del termine “sperimentare”.

Lorenzo Fois

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