Apparat @Goa (10/2014)

Una sensibilità del suono del tutto entusiasmante

Ci sono posti che hanno l’aria di casa. Come Via Libetta, il venerdì sera, zeppa di locali e persone e bicchieri di plastica che rotolano fra i piedi. A metà strada si apre quell’enorme cancello, porta dell’infernale weekend. «Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate».
Mi avvicino riconoscendo ogni angolo, ogni rumore, schivo con abilità il gruppo di ragazze ubriache che ondeggiano verso un bar dal quale esce musica latina a tutto volume. A passo sicuro mi dirigo verso quella piccola discoteca, protetta da tempo immemore da quel coccodrillo di legno che ti guarda mentre sei in fila come a dire “tranquilla, ho tutto sotto controllo”.
Il Goa per me è stato scuola, luogo in cui sono stata avvicinata ed educata alla musica elettronica durante i miei anni di formazione, la mia adolescenza a gettare le basi, mattoni sostanziosi come Chris Liebing e Carl Cox.

Torno dopo la lunga pausa estiva per l’ennesimo pezzo grosso che varca quella soglia: Apparat.

Apparat, alias Sascha Ring, classe 1978, ha fatto il nido a Berlino, dove ha iniziato a produrre techno, poi elettronica, facendosi influenzare da tutto, dalla glitch alla musica classica.

Aspetto impaziente che attacchi, bevo un Gin Tonic, fumo una sigaretta. La luce bluastra del mio telefono dice che sono le due, il posto si affolla, la folla smania.
Mentre sono là, rifletto sul fatto che sia un dj set e mi ritorna in mente la storica domanda “ma un dj è solo uno che mette i piatti, come si fa a chiamarla esibizione?” Magari me l’avessero fatta una sola volta, mio padre è il presidente del fan club IDISCJOCKEYNONSONOARTISTI. Proprio nel momento in cui mi chiedo che scelte sbagliate io abbia fatto nella vita per essere finita a recensire uno che mette i dischi (sì mi faccio plagiare facilmente nei momenti di attesa) Apparat arriva e inizia a suonare. Sì proprio a suonare.
Perché anche se là tra le mani non ha una chitarra, una pianola o un sintetizzatore, ha la sua piccola consolle e a lui basta. Per più di tre ore il giovane tedesco si rigira il pubblico in estasi come un calzino, pezzo dopo pezzo, con quei beat incalzanti che ti entrano nella cassa toracica e sembrano volertela far scoppiare.
I piedi, irrefrenabili, sono dotati di una vita tutta loro, e non seguono più la tua volontà ma quella di Apparat. Lui che piano piano ti porta in cima, ti spinge giù con quella meravigliosa sensazione di cadere nel vuoto, e poi ti prende delicatamente tra le braccia e ti fa sentire al sicuro. Tutto con un paio di tasti. Ok forse più di un paio. Con anni e anni di esperienza musicale. Con una sensibilità del suono entusiasmante.

Perché io vorrei spiegarvelo cosa vuol dire emozionarsi per dei suoni prodotti da apparecchiature elettroniche e non per delle voci o degli archi o dei tasti di pianoforte.
Vorrei potervi spiegare qual è la differenza fra un dj set di Apparat e il dj che mette “Hot Stuff” e “Daddy Cool” ai matrimoni.
Vorrei potervi spiegare la sensazione di perdere coscienza del proprio corpo e sentire la musica che esce dalla cassa e ti attraversa da parte a parte.
Vorrei parlarvi di Giorgio Moroder e di Frankie Knuckles, dell’house di Chicago e della techno di Detroit, della drum ‘n bass, dell’eurodance, del trip hop, della dubstep, della glitch music e dell’electroswing.
Vorrei potervele spiegare ma non ne sono in grado.
Vorrei foste stati con me venerdì, nella folla disumana del Goa, a guardare Apparat. Perché lui sì che queste cose le ha sapute spiegare. E fidatevi, alla fine non avreste più detto che un dj è solo uno che mette i dischi.

Eleonora Paesani

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